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Costume e SocietàLetteratura

Una vita sacrificata in nome della sopravvivenza

Di Mario Staglianò

Care anime distanziate, protette e vocianti dietro una mascherina, seguaci dell’#andràtuttobene, apostoli della cancel culture, ecco due libri molto interessanti da leggere e meditare. Sono stati appena pubblicati due saggi del filosofo sud coreano, e docente in Germania, Byung-Chul Han intitolati La società senza dolore (Einaudi Stile Libero) e La scomparsa dei riti (Nottetempo). Associando queste due tematiche, società senza dolore e scomparsa dei riti, Chul Han sviluppa una riflessione sul nostro tempo e sul nostro modo di vivere.
Dalle pagine di questi due saggi emerge uno specchio nel quale studiare noi stessi. Mai, infatti, come in questa era della pandemia la nostra isteria della sopravvivenza ci aveva spinti a sacrificare tutto, persino il godimento, inseguiti dalla algofobia, ovvero dal terrore del dolore.
Ecco una verità inconfutabile: la nostra società occidentale ha rimosso il dolore dal suo orizzonte. Soffrire, essere infelici, farsi travolgere dal negativo è male così come sollevare, in qualsiasi momento, la sana dimensione conflittuale (“la guerra è madre di tutte le cose”) che ha costituito la spinta della nostra storia. Senza dolore non si dà catarsi e senza catarsi non c’è arte né sapienza. Dice Eschilo: “la conoscenza proviene dalla sofferenza” e approda alla gioia, alla liberazione.
La società palliativa o la società del mi piace, nutrita a palate di resilienza, trasforma qualsiasi trauma in niente di più che un catalizzatore della prestazione. L’insegnamento del dolore viene condannato a tacere. Non più maestro di vita diventa soltanto un carburante del nostro narcisismo in cui l’auto realizzazione diventa sottomissione inconsapevole ad un sistema che ci spinge ad auto sfruttarci.
Terreno dell’abrasiva critica di Han è il campo illimitato dei social, in cui la costante richiesta di raccontare se stessi equivale a una sorveglianza totale, pornografica e panottica, a cui ci sottoponiamo volontariamente. In questa situazione i leader rivoluzionari vengono sostituiti dai trainer motivazionali; non più sangue e lacrime per migliorare la società ma, al massimo, sudore in palestra per dimagrire. Sono proprio questi sacerdoti laici del contemporaneo che ci fanno rassegnare a ogni cambiamento, anche a quello più ingiusto, come se fosse solo un’occasione per dimostrare se stessi.
Dentro questa società in cui aumentano le forme di controllo e, anche, di autocontrollo, c’è un ideale di felicità che coincide con un ideale di auto realizzazione molto superficiale. È, proprio, un dispositivo alla felicità che isola l’essere umano e conduce a una spoliticizzazione e a una de solidarizzazione della società.
Che società è quella che ha bandito il dolore dal suo orizzonte? È una società in cui “la sofferenza, della quale sarebbe responsabile la società, viene privatizzata e psicologizzata. Le condizioni da migliorare non sono sociali, bensì psichiche”. Ecco perché ci vogliono mandare tutti in analisi, quando non portano gli analisti addirittura dentro le scuole o nei luoghi di lavoro. In questo modo la responsabilità del nostro malessere si sposterà così dall’universo esogeno fuori di noi a quello endogeno, affonderà nell’infanzia, nei rapporti con i nostri genitori (quando mai l’ansia del giovane uomo senza lavoro sarà ampiamente motivata e non frutto di una sua patologica gestione dell’emotività?). “L’assoluta medicalizzazione e farmacologizzazione del dolore impediscono che esso si faccia linguaggio, anzi critica”. Qui sta il punto. Concentrarsi sul proprio sé tormentato, come se questo fosse il mondo invece che sull’universo che lo mortifica. Ciò potrebbe essere rischioso. Potremmo renderci conto che non è proprio tutta colpa nostra e cominciare a esercitare il pensiero critico contro l’esistente. Chiusi nello studio asettico dello psichiatra, dimentichiamo che non siamo i soli a patire per colpa di un mondo malato: “Il fermento della rivoluzione è però il dolore percepito insieme […]. In tal modo si opprime e si rimuove la dimensione sociale del dolore […]. La stanchezza dell’Io è la migliore profilassi contro la rivoluzione.”
Anche l’arte deve essere piacevole, possibilmente decorativa e pubblicitaria, così come la vita perennemente “instagrammabile, priva di angoli ovvero priva di angoli e spigoli, di conflitti e contraddizioni che potrebbero provocare dolore”. Diversamente dalla cancel culture, per Han, “l’arte deve sconcertare, disturbare, inquietare, anche saper far male”, altrimenti è catechismo, progressista quanto si vuole, ma sempre catechismo.
Han ci invita a ricordare cosa vuol dire l’esperienza umana intessuta nel senso di comunità e questo senso di comunità è qualcosa che, da un certo punto di vista, ci manca profondamente e dall’altra parte è illusoriamente presente. Oggi, infatti, illudendoci di essere connessi 24 ore al giorno, ci ritroviamo invece in una società atomizzata e anestetizzante in cui cresce la nostra ipocondria digitale dell’auto misurazione. Smartwatch e gadget indossabili costituiscono e sostituiscono l’auto consapevolezza con la metratura del corpo. Siamo imbrigliati in una coazione a produrre convinti che i nostri smartphone siano strumenti di espressione della specifica personalità mentre, invece, con i loro contenuti multimediali che richiamano continuamente la nostra attenzione, sono il contrario di sé.
I riti, invece, erano un legame e non una espressione del sé. Un legame con gli altri, un simbolo, una pratica di mettere insieme. Oggi, però, non viene richiesto di partecipare a riti ma solo di produrci dappertutto, in modo compulsivo, nei social network. Ci si sfrutta da soli credendo di auto realizzarsi. Mediante il culto dell’autenticità, il regime neoliberista si appropria della persona e la trasforma in un sito produttivo ad altissima efficienza. Al centro di questa economia di predazione c’è una soggettività che si sfrutta da sola. Questa tendenza non può che condurci a un nudismo dell’anima che le conferisce tratti pornografici.
Il mondo che emerge dal lucido sguardo filosofico di Han non è più un teatro in cui si interpretano ruoli e vengono scambiati gesti rituali, bensì un mercato nel quale ci si mette a nudo e ci si esibisce. Il mondo non è più uno spazio scenico ma diventa, semplicemente, una relazione di mercato in cui siamo, al tempo stesso, i soggetti economici e la merce in una esibizione pornografica del privato che genera disturbi narcisistici germogliati dall’incapacità di condurre relazioni sociali oltre i confini del sé. La scomparsa dei riti ci fa perdere i confini fondamentali della vita. Invecchiamo senza diventare vecchi, consumatori incapaci di divenire adulti avendo perso la sacralità dei riti di passaggio che strutturano la vita come le stagioni. “I riti riassumono il mondo, producono un forte rapporto col mondo, mentre alla base della depressione c’è una smodata autoreferenzialità. Del tutto incapaci di uscire da se stessi e di superarsi proiettandosi nel mondo, ci si incapsula”. Concludiamo riportando le parole di Han nei riguardi dell’impatto della pandemia di Covid-19 sulla società palliativa:

Il virus fa breccia nella zona di benessere palliativa e la trasforma in una quarantena in cui la vita s’irrigidisce diventando mera sopravvivenza… nel nome della sopravvivenza sacrifichiamo volentieri tutto ciò che rende la vita meritevole di essere vissuta. Dinanzi alla pandemia, anche la radicale limitazione dei diritti fondamentali viene accettata senza discussioni. Senza opporre resistenza ci adeguiamo allo stato di eccezione che riduce la vita a nuda vita. Sottoposti allo stato di eccezione virale, ci rinchiudiamo volontariamente in quarantena.

Foto: fabriziofalconi.blogspot.com

Redazione

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