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Costume e SocietàLetteratura

La legislazione in materia di sostanze stupefacenti nell’ordinamento Italiano

Di Serena Callipari, Davide Barillà ed Enzo Nobile

La Convenzione dell’oppio sottoscritta dall’Italia all’Aja il 23/01/1912 trovò attuazione nel nostro ordinamento con la Legge 18/12/1923, nº 396, recante provvedimenti per la repressione dell’abusivo commercio di sostanze velenose aventi azione stupefacente.
Fu la prima legge italiana in materia di stupefacenti che prevedeva delle sanzioni penali per chi vendeva, somministrava o deteneva al fine di vendere o somministrare cocaina, morfina, loro composti o derivati e, in generale, qualsiasi sostanza avente effetto stupefacente, ma anche per chi assumeva sostanze stupefacenti prendendo parte a convegni in un locale o in un luogo di trattenimento o di ritrovo, pubblico o privato (cosiddette fumerie) “per darsi all’uso di sostanze tossiche stupefacenti”.
La pena era della multa da Lire 1.000 a 5.000; in caso di recidiva, la pena era aumentata da un terzo alla metà, e poteva essere aggiunta l’interdizione temporanea dai Pubblici Uffici da tre mesi a un anno e la detenzione da uno a tre mesi (art. 10).
La legge prevedeva, inoltre, che la sentenza di condanna per uno dei reati in essa previsti doveva essere pubblicata, integralmente o per estratto, a spese del condannato, in un giornale da designarsi nella sentenza stessa fra quelli più diffusi nel luogo nel quale era stato commesso il reato.
Non era prevista, invece, una definizione di sostanza stupefacente, che venne demandata all’adozione di un regolamento successivo contenente un elenco di sostanze vietate, che all’allegato A conteneva l’elenco delle sostanze tossiche aventi azione stupefacente.

Il Codice Rocco

Il Codice Rocco affiancò alle fattispecie previste nella Legge nº 396 del 1923 alcuni illeciti che venivano ritenuti offensivi dell’incolumità pubblica.
Le quattro fattispecie previste miravano, più che a tutelare la salute, a tutelare l’ordine pubblico.
In particolare, l’art. 446 Codie Penale puniva il commercio clandestino o fraudolento di sostanze stupefacenti, nonché la somministrazione o l’aver procurato ad altri le sostanze in modo clandestino o fraudolento.
L’art. 447 C.P. puniva, invece, l’agevolazione dolosa dell’uso di sostanze stupefacenti con la reclusione da 6 mesi a 2 anni e con la multa, mentre il consumatore veniva punito solo se colto a partecipare ai cosiddetti convegni nelle fumisterie o in stato di grave alterazione psichica in luoghi pubblici o equiparati (art. 729 C.P.).
L’art. 730 C.P., infine, puniva la somministrazione di sostanze stupefacenti a minori di anni sedici da parte di soggetti autorizzati alla vendita o al commercio di medicinali.
A differenza della previsione di cui alla L. 18 febbraio 1923, nº 396 che demandava all’adozione di un regolamento l’individuazione specifica delle sostanze da ritenersi stupefacenti, il Codice Rocco non individuava le sostanze vietate attraverso un sistema tabellare, ma forniva una definizione legislativa sintetica di sostanze stupefacenti la cui individuazione era rimessa alla libera interpretazione del giudice in base al caso concreto.
In genere, venivano intese come sostanze stupefacenti le “sostanze narcotiche le quali agiscono prevalentemente sul sistema nervoso”, mentre venivano esclusi i sonniferi e gli eccitanti del sistema nervoso quali caffè, tè, il cola, la canfora, il tabacco, i quali si rendevano nocivi solo facendone abuso.
La distinzione era rilevante sul piano della politica del diritto, perché l’ordinamento dell’epoca fascista non offriva al tossicodipendente specifici strumenti terapeutici di sostegno e cura.
Il trattamento terapeutico per i tossicodipendenti era di tipo psichiatrico e prevedeva il ricovero coatto in manicomio o in una casa di salute del consumatore il quale veniva ritenuto “pericoloso per sé e per gli altri” o che risultasse “di pubblico scandalo”, al fine di tutelare in via prioritaria l’ordine e la moralità pubblica più che la salute del soggetto tossicodipendente.

Il regio Decreto del 1931 e la Legge del 1954

Con la Convenzione di Ginevra del 1931, per limitare la fabbricazione e regolare la distribuzione degli stupefacenti si rese necessario un ulteriore intervento normativo di ratifica.
Con il Regio Decreto Legge del 15 gennaio 1934, nº 151, contenente nuove norme sugli stupefacenti, si tornò all’individuazione normativa delle sostanze illegali e furono introdotte nuove ipotesi di reato, tra i le quali l’agevolazione dell’uso di sostanze stupefacenti, l’abuso di sostanze stupefacenti, la somministrazione ai minori.
Per ciò che riguardava, invece, il consumatore, fu introdotto il ricovero coatto in casa di salute per coloro che fossero stati colti in stato di alterazione psichica per uso di stupefacenti.
Il ricovero era finalizzato alla disintossicazione e poteva essere disposto dall’autorità giudiziaria.
Il quadro normativo rimase invariato fino all’adozione della legge nº 1.041/1954, contenente la disciplina della produzione, del commercio e dell’impiego degli stupefacenti.
La legge aveva un’impronta decisamente proibizionista: vennero introdotte numerose nuove ipotesi di reato e punita la mera detenzione di stupefacenti, a prescindere dalla destinazione all’uso personale.
Inoltre, la citata legge introduceva una disciplina organica della produzione, del commercio e dell’impiego delle sostanze stupefacenti e manteneva la previsione del ricovero coatto a scopo di cura per i soggetti ritenuti pericolosi a causa di alterazione psichica causata dall’uso di stupefacenti.

Tratto da L’ingente quantità e il fatto di lieve entità della Legge sugli Stupefacenti; Key editore
Foto:
vice.com

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