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Costume e SocietàLetteratura

L’arrivo a Corleone

Stasi XVIII - Varcato lo Stretto di Messina, Francesco Rossi intraprende l’ennesimo viaggio, in questo caso alla volta di Corleone, per definire meglio l’accordo con il suo socio siciliano. Quello che gli si para davanti è un paesaggio brullo e singolare, così diverso eppure così simile rispetto a quello che l’imprenditore ha lasciato sulla Penisola.

Di Francesco Cesare Strangio

All’alba del sabato partì da Reggio Calabria, per andare a Messina, con il ferry boat; erano le otto quando il treno iniziò a muoversi.
Quella mattina, vedere lo Stretto dalla parte opposta gli generò una certa emozione.
Non era la prima volta che osservava le montagne che facevano da sfondo a Reggio.
L’emozione era forte a conseguenza del ricordo di quando aveva attraversato per la prima volta lo Stretto assieme al padre.
Aveva poco più di otto anni, quando una sera del mese di luglio il genitore gli disse: «Francesco, domani attraverserai lo Stretto con il tuo papà».
Quella notte sognò Ulisse con la sua nave, la fata Morgana che regnava incontrastata su quelle acque limpide e grandi mostri che popolavano lo Stretto.
All’indomani, di buon’ora, padre e figlio partirono con il grande mostro di ferro che camminava sull’acqua, lasciando al suo passaggio una grande scia di schiuma bianca.
A metà dello Stretto, voltando lo sguardo a settentrione, vide il punto più breve che separa le sponde delle due terre, coinvolgendo l’immaginario che lì vi fu un tempo in cui i ciclopi saltavano, indisturbati, da una parte all’altra. L’immagine del punto più stretto del mare rianimò in lui il ricordo del nonno…
Sentiva la sua voce, con dolcezza, recitare un verso dell’odissea:

L’altro scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo, vicini uno all’altro, dall’uno potresti colpir l’altro di freccia… Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie e sotto Cariddi gloriosa l’acqua livida assorbe.

Odissea, XII, 101-104

Erano quelli tra i ricordi più forti della sua infanzia. Ormai non gli restava altro che barlumi di sogni sfocati e senza contorni, avvolti dalla nebbia che di anno in anno va sempre più infoltendosi.
Ramingo per il mondo come Ulisse eroe dei suoi sogni, guidato dal fato in attesa di ritornare a Itaca.
Il fischio del treno lo allontanò dai ricordi, facendogli risalire la china della realtà.
Il percorso di 224 chilometri gli permise di sublimare il paesaggio che, di volta in volta, si presentava ai suoi occhi.
Durante il viaggio il caldo si faceva sentire sempre di più; per alleviare la canicola abbassò il finestrino favorendo così l’ingresso dell’aria, dando refrigerio ai passeggeri.
Alle undici in punto, con precisione da orologio svizzero, il treno arrivò a Palermo.
Nei pressi della stazione, i palazzi del regno delle due Sicilie scimmiottavano con superba vanità il ricordo di un glorioso passato, tanto che quelli della via marina di Reggio, a confronto, si perdevano nei profondi meandri della memoria di Rossi.
Palermo fu la capitale di uno Stato che diede prosperità al meridione e gelosia al Nord; sotto il principio dell’unità fu tolta la dignità a un intero popolo.
Sceso dal treno, si guardò intorno nell’intento di vedere l’uomo che portava un fazzoletto rosso in mano. A poca distanza, verso l’uscita, vide un signore dall’aspetto taurino che agitava un fazzoletto di color rosso.
Rossi si mosse verso di lui e, quando arrivò a pochi passi, l’uomo gli domandò se fosse il signore di Reggio Calabria.
Naturalmente Rossi rispose di sì e poi si avviarono verso l’esterno della stazione.
Lì c’era una Fiat 1.100 nera, alla guida un giovanotto che portava una coppola di colore marrone. L’uomo dal fazzoletto aprì la porta a Rossi e lo fece sedere dietro in segno di rispetto.
L’auto si avviò verso la periferia della città per poi prendere la strada in direzione di Corleone, Cunigghiùni in siciliano.
Quell’area fu abitata sin dal neolitico. In età medioevale, la Vecchia costituì l’alter ego della città di Corleone e fu probabilmente rifugio ideale dei musulmani ribelli del distretto, poi deportati, anno 1225, a Lucera, in Puglia, con le sanguinose repressioni di Federico II.
Nel 1080 veniva conquistata dai Normanni e nel 1095 fu annessa alla diocesi di Palermo. Circa cento anni dopo passò alla nuova diocesi di Monreale. La città già infeudata nel 1180 alla chiesa di Monreale, venne ripopolata nel 1237 da una colonia di ghibellini Lombardi guidata da Oddone de Camerana, per concessione fatta a Brescia dallo stesso imperatore. Tuttavia, nel 1249, Federico, revocando il precedente privilegio, assegnava la città al regio demanio, anche se il flusso migratorio degli abitanti della Pianura Padana continuò fino alle soglie dei Vespri siciliani. Il che è dimostrato da un documento edito da Iris Mirazita, con il quale il nobilis Corrado de Camerana, su incarico della curia di Corleone, assegna agli uomini che verranno ad abitare a Corleone casalinis pro faciendis dominibus, i cui nomi lasciano supporre l’origine settentrionale e latina.
Dopo aver percorso una quarantina di chilometri arrivarono a una tenuta di qualche migliaio di ettari totalmente coltivati ad agrumeto.
Era uno spettacolo senza limite. Il profumo liberato nell’aria dalla zagara, fiorita in ritardo, era così forte che riempiva l’intera vallata.
Un grande portale riportante il blasone del casato demarcava il limite della proprietà del Conte Balsamo. Dopo circa un chilometro, sopra un promontorio che dominava la vallata, vi era un enorme palazzo a simbolo della potenza del casato.

Foto: addamoedisalvo.com

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