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La ghost town: miti e leggende di Roghudi Vecchio

Locride… e dintorni in Mountain Bike XXIII

Di Rocco Lombardo

Esistono luoghi in cui il tempo sembra essersi fermato, dove tutto appare sospeso e, ancora oggi, a distanza di molti anni dalle vicende funeste che li videro teatro di abbandono, trasmettono sensazioni magiche e inquietanti allo stesso tempo. Con il percorso nel territorio montano dell’area grecanica, abbiamo cercato di riportare alla memoria luoghi dimenticati e borghi fantasma, nel tentativo di contribuire, nel nostro piccolo, a consolidare conoscenza e coscienza del territorio e delle nostre origini.
La terza e conclusiva parte del percorso, dopo la discesa a Casalnuovo e la risalita sterrata di Africo Vecchio, fino allalocalità di Puntone Carrà (925 metri sul livello del mare), attraverso un falsopiano, con impegnativi saliscendi, in asfalto e sentieri sterrati, giunti nei pressi del Casello di Marupapa in leggera discesa e in pochi chilometri, ci fa giungere nei pressi di un crocevia che a sinistra, attraverso la tortuosa salita di Monte Lestì, recupera i Piani di Bova, mentre a destra,in discesa, ci consente di raggiungere in breve tempo la Rocca tu Dracu e le Caldaie del Latte, per poi proseguire verso Ghorio e quindi Roghudi Vecchio, un tracciato altamente suggestivo, magico e affascinante in ogni suo chilometro di percorrenza.
Mentre scendiamo a moderata velocità, lungo l’antico tracciato che un tempo valicava l’Aspromonte, nel territorio della sparuta frazione semi abbandonata di Ghorio di Roghudi, veniamo attratti dalle indicazioni topografiche del Geo-Park dell’Aspromonte che, recentemente posizionate, delimitano con steccati e passaggi su pontili in legno l’area della cosiddetta Rocca tu Dracu che, unitamente alla Caldaie del latte, originano da due formazioni geologiche che sembrano troneggiare a guardia dell’intera vallata; la prima, è un monolite dalla strana forma, con due grosse incisioni circolari, il cui nome risale al termine ellenistico Draku che vuol dire, appunto, occhio, all’interno del quale si narra soggiornasse un Draco, che custodiva un antico tesoro raccolto dai briganti, che si allontanava solo di notte dalla sua dimora per consumare la sua cena nelle vicine sette Caldaie; la seconda, a forma di caddareddhi, modellata dagli agenti atmosferici per la sua conformazione simile a quella delle pentole in cui si bolliva il latte, secondo la leggenda permetteva al drago di nutrirsi. Due conformazioni rocciose che caratterizzano questo territorio, non per nulla assurte a simbolo dell’intero Aspromonte.
Sempre la leggenda racconta che chiunque si fosse avvicinato a colpire la rocca o a cercare di profanarne il tesoro custodito, sarebbe stato ucciso e spazzato via da un forte vento; si narra anche che il tesoro custodito dal Draco sarebbe stato donato solo a chi si fosse prestato a una prova che consisteva nel sacrificare tre esseri viventi di sesso maschile: un capretto, un gatto nero e un bambino appena nato. Il giorno in cui nacque in paese un bimbo malformato, due uomini provarono a sacrificarlo assieme al capretto e al gatto ma, quando toccò al neonato, una tempesta di vento si batte sui due e li scaraventò contro le rocce, salvando la vita al neonato, uccidendo uno dei due uomini e dando inizio, per il secondo, a una vita di persecuzioni da parte del diavolo che sarebbero durate sino alla sua morte. Da quel momento nessuno osò più sfidare il Draco.
Riportare alla memoria queste leggende ai piedi del grosso masso ha un fascino esoterico tutto particolare, anche alla luce della brezza che spira alle nostre spalle. Ripercorrere questo vecchio percorso che conduce a Roghudi, è come ripercorrere un viaggio indietro nella storia, una macchina del tempo che ci riporta alla scoperta di un luogo che, di fatto, ha segnato la storia del nostro territorio, il silenzio che avvolge questo lembo di terra antico e primordiale racconta storie e immagini pervase da sensazioni e sentimenti contrastanti, riflessioni e domande a cui, probabilmente, nessuno mai darà risposta!
Anche se la nostra escursione avviene ancora in estate, l’Aspromonte sembra già prepararsi ad accogliere l’autunno, i tuoni e le nuvole cariche di pioggia in lontananza in quest’angolo di montagna pervaso da silenzi e solitudine ci suggeriscono storie che vanno vissute in prima persona, volgendo lo sguardo oltre l’incuria e l’abbandono che queste pietre abbandonate si portano dietro; percorriamo a velocità moderata la strada asfaltata che, in fondo alla discesa, ci conduce alle porte di Ghorio, frazione ormai parzialmente disabitata in cui, nei pressi di una cava sul greto della fiumara, le indicazioni toponomastiche ci portano a piegare a sinistra, attraverso un breve strappo in moderata salita, per poi finalmente percorrere l’ultimo tratto sconnesso e ricoperto da detriti che ci obbliga a una particolare prudenza fino alle porte del borgo fantasma; nei pressi di un tornante lo sguardo viene rapito dalla raffigurazione paesaggistica che ci si staglia davanti; una suggestiva lingua di ruderi abbarbicata su di un costone roccioso, a circa 600 metri di altitudine, ove si materializza il paese fantasma di Roghudi Vecchio, il cui nome deriva dal greco rogòdes, pieno di crepacci o rhekhodes, aspro. Abitato sin dal 1050, venne poi abbandonato a seguito di due terribili alluvioni, avvenute rispettivamente nel 1971 e nel 1973, eventi che resero il paese isolato per diverso tempo, provocando diversi morti e dispersi e rendendo inagibili la maggior parte delle abitazioni.

Il borgo sorge su uno sperone roccioso, occupando una posizione pericolante ai cui piedi scorre la Fiumara Amendolea, oggi dal grande letto spettrale e asciutto che, negli anni ’70, provocò le disastrose inondazioni che ne decretarono l’amaro abbandono; all’epoca, infatti, Roghudi contava circa 1.650 abitanti, edil conseguente sgombero coatto del borgo non incontrò ovviamente il favore di tutti, prevalentemente pastori visceralmente legati al luogo d’origine che rifiutarono di abbandonare le loro abitazioni per poi desistere due anni dopo, quando un’altra violenta alluvione li costrinse a capitolare, vedendosi trasferiti nella Roghudi Nuova, situata nelle vicinanze di Melito Porto Salvo, a 40 km sulla costa dal borgo fantasma.
Lo scenario che si presenta ai nostri occhi è quello di un paese dal fascino inquietante e misterioso; le case sono costruite sul precipizio, una sull’altra, in condizioni di estrema precarietà; giunti alle porte del borgo ci inerpichiamo su per una salita lastricata, consolidata da un terrapieno di contenimento, ripristinato da non molto tempo, cinto da un muraglione in pietra, su cui si affacciano alcune abitazioni di recente ristrutturazione, d al cui apice, in mezzo a tanti ruderi, spicca la chiesetta di San Nicola, anch’essa in fase di restauro, umile luogo sacro, ritinteggiato da poco al suo interno, con una croce in legno e diverse immagini votive, segno di una presenza umana che nonostante tutto non vuole abbandonare questo luogo magico e il cui sagrato ci consente di rifiatare al fresco di un pergola di vite, nei pressi di una piazzetta che ha rappresentato per centinaia di anni un luogo di incontro e di relazioni per gli abitanti del borgo.
Lasciate le bici, ci addentriamo a piedi nel fitto labirinto di vicoli e stradine sui cui si affacciano le abitazioni, le scalinate e le piazzette ammantate dal silenzio, ove si può ancora leggere la storia di donne e uomini e la loro quotidianità; la sensazione di sospeso e relativo prende l’inquietante sopravvento all’interno di alcune abitazioni, ormai senza infissi, che per centinaia di anni hanno dato vita e storia a questo luogo, e che improvvisamente sono state abbandonate; è rimasto tutto come lasciato dagli abitanti fuggiti durante la notte delle inondazioni; possiamo solo immaginare lo smarrimento e il dolore provato di chi ha vissuto tutto ciò, tra le suppellettili impolverate, i tavoli con le sedie, le botti di vino, le giare d’olio, i forni attigui alle abitazioni e finanche i letti ancora ricoperti da brandelli di coperte di ginestra.
Questo è l’affresco dipinto dalla storia, dall’uomo e dalla natura, rappresentato dai resti e dai ruderi a picco sui precipizi, dai magici scorci, un luogo fermo nel tempo, ma le cui anime più profonde sembrano ancora parlare al visitatore; una ghost town che per i visitatori più curiosi e attenti, in particolare per gli amanti dei luoghi avvolti dal mistero e dei paesaggi naturali incontaminati, rappresenta una tappa molto particolare, ormai da anni meta preferita, da coloro che hanno aggiunto questo luogo al tour delle città fantasma, come la giovane coppia ispanico-norvegese che incontriamo strada facendo e con cui ci tratteniamo per scambiare sensazioni e suggestioni, sorpresi dalla loro ferma volontà di accollarsi migliaia di chilometri pur di poter visitare questo borgo magico e affascinante.
In questi luoghi desolati, al confine tra sogno e realtà, le leggende e i racconti popolari si sprecano: a metà del secolo scorso si racconta venissero conficcati grossi chiodi ai muri delle abitazioni attraverso cui le mamme assicuravano cordicelle che legavano alle caviglie dei più piccoli, non una punizione, ma una protezione per evitare che cadessero dagli altissimi dirupi, presenti praticamente ovunque, e si tramanda che di notte si possano sentire ancora i loro lamenti salire dai dirupi verso il paese.
Nella contrada di Ghalipò, di fronte a Roghudi, secondo gli anziani del posto vivevano le Andrade, donne con piedi a forma di zoccoli come i muli, il cui unico scopo era quello di attirare con l’inganno le donne del paese verso il fiume per ucciderle e accoppiarsi con gli uomini del villaggio; per scongiurare questa minaccia le donne fecero costruire tre cancelli ancora esistenti, collocati in tre differenti entrate del paese: uno a Plachi, uno a Pizzipiruni e uno ad Agriddhea.
Un lungo e infinito sonno si è impossessato di questo remoto borgo, e la via del ritorno ci immalinconisce ancor di più quando veniamo sorpresi da un forte acquazzone che, figurativamente, ci rappresenta i colori e gli odori della tragedia vissuta cinquant’anni prima; la salita è molto dura, la stanchezza si fa sentire e le gambe infreddolite dal brusco calo della temperatura non girano più come prima; la lunga salita del ritorno l’abbiamo fatta in religioso silenzio come quasi tutta l’ultima parte dell’escursione tra i ruderi dai profili taglienti, ammaliati dai colori cangianti resi sempre diversi dal sole che si nascondeva dietro le nuvole per poi riapparire veloce e intermittente, come i tanti pensieri che si sono affollati nella testa, tra tuoni assordanti e lunghi silenzi.
Raggiungiamo nuovamente l’area della Rocca tu Dracu, a da lì la strada che porta a Monte Lestì, i cui tortuosi tornanti ci riportano in quota fino ai Piani di Bova, incontriamo anche una mandria di mucche incuriosite dal nostro passaggio e, giunti nei pressi del Casello di San Salvatore, riprendiamo stavolta in discesa la strada per Bova completando così il giro ad anello fino alla nostra vettura. Ci siamo eletti testimoni di una memoria che è necessario tramandare, di luoghi e borghi che ormai sulle cartine non esistono più ma che tanto hanno contribuito alla storia della nostra terra e, per certi versi, della nostra perduta gente.

Un ringraziamento a chi ha condiviso emozioni e sensazioni di questo viaggio nella storia e nella memoria: Giuseppe Pileggi, Francesco Rodinò e Antonio Maccarone.

Redazione

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