La fuga come scelta di appartenenza a sé stessi
È in sala “A Chiara”, nuovo film di Jonas Carpignano, che ritrae la medio-piccola borghesia calabrese attraverso i riti della modernità urbana nel nostro Sud e premiato con il “Label Europa Cinemas Cannes” per il miglior film europeo del 2021. Ecco la lettura che ne dà Luisa Ranieri.
Di Luisa Ranieri
Al culmine del dramma, in macchina col cugino alla guida, davanti al posto di blocco delle Forze dell’Ordine e col padre ‘ndranghetista nascosto nel portabagagli, Chiara prende la sua decisione.
È vero – come le spiega il cugino per distrarla – che il duca di Urbino è stato dipinto in tutta la sua imperfezione fisica, ma è anche vero – se ne può metaforicamente dedurre – che è proprio questo che bisognerebbe fare in tutti gli ambiti: sottolineare e interpretare la realtà senza mai nasconderla.
E – sembra concludere tra sé e sé Chiara – se a una data realtà non ci sentiamo di appartenere, dobbiamo ribellarci a essa e seguire in modo autonomo la nostra strada.
E così la ragazza apre lo sportello e fugge da ciò che sente che non le appartiene e cioè da tutto ciò che riguarda la condotta del padre, come:
- l’auto incendiata dagli avversari e la fuga di lui, di notte e attraverso i tetti della propria abitazione;
- la sua vita da latitante, anche se non da assassino;
- la sua compravendita di partite di droga, sia pure per garantire, come assicura lui, la sopravvivenza alla famigliola;
- i bunker sia cittadini sia montani per sfuggire alla legge perché è la manovalanza che finisce sempre in carcere e mai i boss che sono i veri artefici del malaffare;
- la sua collusione con le mani sporche del sangue di molti dei coinvolti nei suoi stessi traffici illeciti.
Il film, altamente drammatico, ci presenta il lato oscuro della realtà calabrese, senza però cedere alla tentazione della criminalizzazione generalizzata.
E così, il padre fuggitivo viene presentato in tutta la sua amorevole dolcezza nei confronti dei propri famigliari, come appare in modo molto articolato durante l’esagerata e anche un po’ pacchiana festa di compleanno della primogenita.
La gioventù, sempre attaccata al cellulare, si assomiglia sia nell’ambiente degradato dell’accampamento degli zingari sia in quello medio-borghese della famiglia della protagonista, come pure è simile la facilità con cui i giovani di ambedue le parti possono cadere in piccoli/grandi atti delinquenziali, quando il senso di un’ingiustizia subita in loro si tramuta in rabbia.
E qui si inserisce il discorso della tutela dei minori allevati in ambito mafioso,ai quali lo Stato offre la possibilità di scegliere liberamente quale via seguire, mettendo in atto un distacco molto doloroso ma, al contempo, salvifico dalla famiglia di origine.
E, a questo punto, la sistemazione presso un’altra famiglia nella città di Urbino, a suo tempo rifiutata da Chiara, le pare l’unica via di uscita e la ragazza parte convinta alla volta di essa.
Ottima è la fotografia degli ambienti calabresi, sia di quelli opulenti della media borghesia sia di quelli miserabili dei Rom, ed ottima è pure la rappresentazione dei personaggi, che appaiono spesso, i giovani, con i brufoli sul viso e addirittura, la protagonista, una volta anche con l’herpes sul labbro, e i meno giovani, soprattutto ‘ndranghetisti, con le barbe disordinate ed i capelli arruffati, come disordinata e arruffata è anche la loro vita.
Perché la realtà va sempre sottolineata, interpretata, e mai nascosta.
Foto: ilmessaggero.it