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Costume e Società

Africo e Casalnuovo: memoria storica a rischio

Di Bruno Palamara

Si è riempita un’intera biblioteca con articoli e libri su Africo e Casalnuovo, ma non si è mai approfondito esaurientemente sulla moltitudine di persone o figure positive che hanno fatto la storia dei due paesi, come se si avessero delle remore a scoperchiare il loro passato. Conoscere i personaggi che ci hanno preceduto non deve essere inteso come appagante o morbosa curiosità fine a sé stessa ma, piuttosto, deve essere recepito come stimolo, affinché, ogni singolo individuo, temprato dal loro encomiabile esempio, agisca e concorra al bene supremo della propria comunità. Ognuno di questi personaggi incarna e ci racconta un pezzo di società, un modo di pensare, la dura fatica del vivere quotidiano, una specifica fase della nostra storia paesana, tutta memoria storica che non può e non deve essere perduta o trascurata, perché un popolo senza di essa è come un albero senza radici.

La nostra è una civiltà che scompare e su di essa non c’è da piangere ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie.

Questa meritoria esortazione di Corrado Alvaro, contenuta in Gente in Aspromonte, noi, per Africo, l’abbiamo integralmente fatta nostra, cercando, nel corso della nostra maturità, con pubblicazioni e articoli di giornale di analizzare, quasi vivisezionandola, la memoria storica del nostro paese, con il primario scopo di conservare e trasmettere alle generazioni prossime quel ricco e prezioso patrimonio storico e culturale lasciatoci in eredità dai nostri avi.
L’uomo è figlio del proprio passato e, come dice anche il poeta africese Giovanni Favasuli, “dovrebbe difendere la propria identità culturale, affinché di essa alle generazioni venture rimanga indelebile orma nei manufatti, nelle tradizioni, nella poesia, nella musica e nel canto”.Africo e Casalnuovo sono andati perduti, ma grande sarà la nostra colpa se non ci adoperiamo, affinché non cada nell’oblio più triste la loro memoria storica, che per la verità, tutti quanti noi abbiamo in questi anni, colpevolmente, trascurato, pensando, a torto, che c’è sempre l’altro a tenere accesa la fiammella dei ricordi. In tal modo si è arrivati, facilmente, al paradosso dei nostri tempi, per cui l’africese presume di conoscere la storia del proprio paese, crede di ricordarne fatti e circostanze, d’altronde appresi solo dal parziale racconto di nonni e genitori, ma se poi gli domandi qualcosa di particolare, raramente risponde in maniera esaustiva.
Tutti noi conosciamo, a ragione, quanti furono i re di Roma e, tranquillamente, snoccioliamo i loro nomi; ricordiamo, giustamente con facilità, scrittori, poeti e artisti vissuti secoli fa; abbiamo in memoria i più importanti personaggi storici nazionali; sappiamo il nome di chi è stato il primo uomo a toccare il suolo lunare o, per restare in loco, conosciamo la Villa Romana di Casignana o i famosi Bronzi di Riace.
Non conosciamo, invece, i nomi dei nostri nove eroi (tre di Africo e sei di Casalnuovo), tra i quali spicca quello di una giovane donna di diciotto anni, Annunziata Sculli (nata l’1 aprile 1933), tragicamente caduti in quella fatidica alluvione del 1951 e verso i quali manca, a oggi, quell’opera di consacrazione che la loro triste fine avrebbe meritato.
Non ricordiamo più la grande e meritoria opera civile e sociale di quel Giuseppe Morabito (17 giugno 1864), il Sindaco più longevo di tutta la storia africese, capace di ben governare il comune di Africo per ben diciassette anni dal 1905 al 1927, fronteggiando i due terribili terremoti del 1907 e del 1908 con un tale disinteressato attivismo (presta la sua opera di volontariato anche nella Reggio Calabria colpita da quelle tremende calamità) da meritarsi il riconoscimento, da parte delle istituzioni statali, di un Diploma di Benemerenza e di una Medaglia di bronzo al valor civile. A lui si riconosce, inoltre, il merito di avere, per primo, già nel 1910, avanzato l’ipotesi del trasferimento dei due paesi in un posto più sicuro. Consapevole, infatti, della loro critica ubicazione, il Sindaco Morabito si batte con forza, anche se invano, al fine di ottenere lo spostamento di Africo in Contrada Carruso e di Casalnuovo in Contrada Scrisà, confinante con Bruzzano, cui era, in origine, amministrativamente legato.
Né abbiamo memoria del grande sacerdote che è stato Don Antonino Pelle (28 gennaio 1899), parroco, nella Casalnuovo degli anni ’20, di una comunità che viveva ai limiti dell’inverosimile. Vero uomo di chiesa, don Antonino è stato un prete tra la gente e per la gente, un prete di strada, un prete, come, più opportunamente, si dice oggi,al servizio di Dio e del prossimo che si cala, spontaneamente, nella triste e cruda realtà di un paese privo di ogni bene. Sensibile alle istanze e alle ansie dei suoi parrocchiani, afflitti da mille problemi di sopravvivenza, l’Arciprete vive dieci anni di intenso e proficuo apostolato laico e pastorale (1925-1935), donandosi totus alla popolazione casalinovita, assistendola e curandola nello spirito, nel corpo e nella mente. Per la gente di questo povero e isolato paese Don Antonino è tutto: padre spirituale, medico, (nelle necessità, addirittura, opera), infermiere, confessore, perfino conciliatore. Si lega talmente a Casalnuovo da rifiutare altre più confortevoli sedi parrocchiali, preferendo rimanere a occuparsi e preoccuparsi di quelli che, in futuro, anche quando diviene, per ben quarant’anni, Priore del Santuario di Polsi, chiamerà sempre “I miei paesani!. Stimato come il buon parroco persino da quell’altro grande benefattore di Africo che risponde al nome di Umberto Zanottti Bianco, don Pelle ha anche il grande merito di aver avviato agli studi molti giovani di quella difficile epoca, primo fra tutti quel galantuomo di don Ciccillo Favasuli, recentemente scomparso, sempre a lui rimasto grato.
Non rammentiamo più neanche Giulio Colombini (29 agosto 1913), il primo medico africoto che, fin già nel periodo prebellico, si distingue per competenza, umanità e abnegazione in un paese come Africo, che tanto in quel delicato periodo ne ha bisogno. Di lui parla Tommaso Besozzi nello storico servizio pubblicato nel 1948 su L’Europeo, quando, testualmente, afferma:

Ad Africo c’è un medico, il guaio è che vive a Roma, dovendo frequentare le cliniche universitarie per un corso di specializzazione.

È, esattamente, il nostro Giulio, il quale ,proprio in quel periodo, studiava nella Capitale per specializzarsi in ginecologia, settore della medicina in cui ha poi operato con grande perizia.
Altri ancora meriterebbero di essere liberati dall’oblio del tempo, degni di una pur che minima gratitudine. Siamo così diventati, nel tempo, una comunità smemorata, quasi irriconoscente verso persone che, spendendosi per il proprio paese, hanno segnato, in positivo, parte della nostra storia cittadina, lasciandole, colpevolmente, nel dimenticatoio, coperte dalla polvere del passato. Tutto ciò lo si rileva dalla stessa odierna odonomastica urbana, che è stata, in toto dedicata a persone e personaggi che con l’identità e gli interessi della comunità africese non hanno alcun minimo legame. Quanto sarebbe bello, e più utile, che i giovani d’oggi e le generazioni future, percorrendo le vie del paese o, magari, sostando nelle piazze cittadine, potessero, virtualmente, incontrare e dialogare con i molteplici protagonisti della millenaria storia africese!
Non basta partecipare, annualmente, ai pellegrinaggi del 18 Ottobre (Commemorazione dell’Alluvione del ’51) o del 5 maggio (San Leo), per comprovare l’amore per il proprio paese o per onorare i propri avi! Sarebbe, invece, più opportuno attivamente adoperarsi per il recupero dei due borghi scomparsi, oggi divenuti ruderi invasi dalla vegetazione, ma anche, ahinoi, “un’enorme e unica stalla dove le vacche allo stato semibrado hanno preso il possesso”, come hanno ben rilevato in una loro pubblicazione del 1999 Francesco Bevilacqua e Alfonso Picone.

Foto: cultmag.it

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