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Costume e SocietàLetteratura

La visita di Comare Filippa

Il cartomante di Torre Normanna I

Di Bruno Siciliano

⚠️ ATTENZIONE!
Scorri in fondo all’articolo per ascoltare questo capitolo del romanzo letto dalla viva voce di Bruno Siciliano!

“Quando leggerai questa lettera io non ci sarò più. Ti ho amato e ti amerò sempre anche nell’altra vita, se ce n’è veramente una, è per questo che non ti serbo rancore. Tu mi hai abbandonato per paura, per vigliaccheria, per debolezza e questa vita per me non ha più nessun significato. Porto in grembo tuo figlio, quello che tu hai rifiutato, lo porterò via con me e sarà il nostro pegno d’amore per l’eternità.
Addio,
la tua Veronica.”

Aveva preso l’abitudine di leggerlo ogni giorno, quel biglietto, ogni sera, prima che lei arrivasse, come un condannato legge e rilegge la sentenza per trovare un punto, un appiglio, un’inesattezza che possa in qualche modo scagionarlo o scusarlo e rendere così meno gravosa la colpa.
In tutti quegli anni non aveva mai trovato nulla e la sua pena era diventata sempre più pesante.
Poi Mastru Vitu, con le sue dita vecchie e scheletrite, piegò il biglietto macchiato dal tempo, ormai logoro e quasi strappato tra le antiche pieghe e lo rimise nel portafoglio in cui lo aveva sempre conservato.
Dunque si sedette, come al solito, su di una vecchia poltrona, sotto la pergola dell’orto, e accese un sigaro sperando di fugare inutilmente il suo dolore.
Quello era un giorno di festa.
L’aria era tersa su quella collina che il sole baciava per dodici mesi l’anno, profumata dai fiori delle campagne circostanti e ornata dai voli delle rondini che s’intrecciavano nel cielo azzurro appena velato da qualche nuvola primaverile.
Le campane suonavano a distesa: era appena finita la Messa Grande, quella cantata, e donna Peppina e Comare Filippa uscivano dalla chiesa assieme a tutte le altre donne, a qualche uomo e alle monache con il rosario in mano.
«Andate a cucinare, donna Peppina?»
«No è già tutto pronto, mi basta rimettere sul fuoco il ragù e l’acqua per la pasta. Voi tornate a casa?»
«No, devo passare da Peppinuzza a farle l’iniezione. Sapete, quest’inverno ha preso una brutta bronchite e non le è ancora passata, così ogni mattina vado da lei a farle la puntura.»
«Buona Domenica, allora, donna Peppina.»
«Buona Domenica.»
Le due donne si divisero sul sagrato del Duomo, l’una ritornò a casa, l’altra si diresse verso la casa di Peppinuzza, cui avrebbe dovuto fare l’iniezione.
S’incamminò, dunque, la donna, lungo la via acciottolata a schiena d’asino, passò davanti alla casa del Canonico Pensabene, costeggiò la farmacia del Dottor Marvasi, attraversò il porticato dell’ammazzato e passò pure davanti alla casa di Peppinuzza senza fermarsi, imboccando invece via Mercadante per percorrerla tutta, fino ad arrivare aduna casetta bassa con il tetto spiovente, sul quale la primavera aveva fatto spuntare, sul muschio di cui le tegole erano a tratti coperte, dei piccoli fiori viola.
Un vecchio cane dinoccolato attraversò la strada di donna Filippa senza degnarla di uno sguardo. Lei si strinse ancora di più il maccaturi sulla testa e si avviò decisa.
Batté una, due, tre volte le nocche della mano sul vetro della porta verde che avrebbe avuto bisogno di un’urgente riverniciata. Attese un poco, poi una donna anziana un po’ male in arnese, le andò ad aprire.
«Ho un appuntamento cu Mastru Vitu.»
La vecchia donna fece un cenno con la testa ma non rispose e aprì completamente la porta scostandosi per fare entrare Comare Filippa.
«È permessu? Mastru Vitu, sugnu eu, sugnu cca.»
«Benedetta donna, dovete fare tutto ‘sto strepito per entrare? Venite, prego, accomodatevi nel mio studio.»
Quello che Mastru Vitu chiamava studio era una stanzetta tre metri per due senza finestre, con le pareti coperte da drappi neri impolverati dal tempo, ornati da disegni esoterici orientali.
Fungeva da scrivania una vecchia buffetta coperta da un pesante drappo bordeaux.
Troneggiavano sulla buffetta a destra una candeliere a sette braccia, che sorreggeva altrettante candele nere, e a sinistra un teschio di plastica di evidente fattura coreana, che sorreggeva anch’esso una candela bianca la cui cera era colata lungo tutta la sua superficie creando delle strane venature.
Alle spalle di Mastru Vitu un pentacolo stampato su di un drappo nero che copriva la parete di fondo. La scrivania era ingombra di ninnoli arcani, pendolini dalle varie forme e carte degli Angeli e Tarocchi e Sibille, evidenti strumenti del suo mestiere.
Mastru Vitu era un uomo ormai anziano, ma di età difficile da indovinare. Aveva i capelli tutti bianchi e indossava una strana lunga palandrana nera col cappuccio.
Una puzza di aglio, polvere e incenso aleggiava pesantemente per tutta la casa.
Mastru Vitu fece cenno alla donna di sedersi sull’unica sedia di fronte alla scrivania.
«Dicitimi, Comare Filippa» disse con voce grave Mastro Vito disponendosi nella classica posa di circostanza che assumeva nell’ascoltare i clienti.
«Eccu, Mastru Vitu, sentitimi bbonu.»
E qui Comare Filippa prese dalla borsetta un grande fazzoletto da naso, bordato di nero, come usavano nel secolo scorso le vedove, e cominciò a raccontare la sua storia.
Comare Filippa era diventata vedova da qualche anno, il marito era morto d’infarto improvvisamente mentre lavorava. Era un ottimo calzolaio e lo trovarono, una sera, con in una mano ancora la scarpa che stava riparando e il trincetto nell’altra, riverso sul suo banchetto da lavoro.
Lei, ancora piacente, era rimasta sola e viveva con la povera pensione di reversibilità del marito che aggiungeva ai pochi guadagni che otteneva facendo la persona di servizio presso qualche famiglia, o le punture per chi ne aveva bisogno. Si adattava pure a fare qualche lavoro al telaio che vendeva poi ai turisti: pezzare e tessuti per abiti, finissime lenzuola e tutto quello che riusciva a confezionare per i suoi clienti durante l’estate, quando la piccola cittadina si riempiva di visitatori.
C’era in città un brav’uomo, Gennaro, anch’esso vedovo, che faceva una corte serrata a Comare Filippa ma lei, timorata di Dio, non sapeva se cedergli, tanto più che, mentre i suoi due figli la sconsigliavano, lei era propensa per il sì.
«Dicitimi, chi dinnu i carti, mastru Vitu? Io mi affido a voi.»
«Sì, concentratevi – disse lui solennemente, – e toccate questo mazzo di carte. Pensate all’uomo che amate e a quello che voi desiderate.
«Adesso spezzate il mazzetto e scegliete da dove volete che comincio.
«Ora ditemi un numero da uno a nove e restate concentrata.»
«Setti» disse Comare Filippa, speranzosa, in un soffio.
«Va bene» continuò Mastru Vitu, che cominciò a girare sette carte che metteva sul tavolo a faccia in su creando con esse un disegno misterioso…

Foto: wallpaperflare.com

Redazione

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