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Costume e SocietàLetteratura

Le angosce del cartomante

Il cartomante di Torre Normanna II

Di Bruno Siciliano

⚠️ ATTENZIONE!
Scorri in fondo all’articolo per ascoltare questo capitolo del romanzo letto dalla viva voce di Bruno Siciliano!

Il cartomante, rivolgendosi a Comare Filippa, cominciò a parlare con voce grave e solenne.
«Avrete una vita lunga e Gennaro è un brav’uomo e vi vuole bene, voi siete ancora bella e piacente e sicuramente lo potrete rendere felice. Le carte vedono di buon occhio questa vostra unione, che è benedetta dalla fortuna. C’è il sole alla fine della stesa e questo significa che con lui il vostro sarà un futuro d’amore e di fortuna.
Sì, sicuramente dovete accettare la corte di questo brav’uomo che non ha secondi fini e vi potrà dare tutto l’amore di cui voi avete bisogno.»
«E i me’ figghij chi ponnu diri?»
«Che cosa volete che dicano? Sono tutti e due già grandi, l’uno ha già famiglia, l’altro è fidanzato e si sta per sposare… hanno il loro lavoro e la loro casa e, quindi, in che cosa vi possono ostacolare? Vedrete che si abitueranno all’idea e col tempo saranno felici per voi.»
A Comare Filippa scapparono le lacrime, che asciugò col fazzoletto che aveva in mano, poi si soffiò rumorosamente il naso e, rivolta a Mastru Vitu:
«Ma i trovu i sordi pe’ fari u spisatu?»
«Certamente, che li troverete. Lui è benestante e poi vi posso aiutare anch’io, sapete che quando posso fare un piacere sono sempre a disposizione di tutti gli amici.
Vi posso prestare quello di cui avete bisogno poi, a ogni fine del mese, mi potrete portare quello che volete. Certamente con un poco di interesse…»
«V’abbasu i mani Mastru Vitu, siti nu santu, Mastru Vitu meu» e così dicendo fece il gesto di prendere tra le sue mani quelle del cartomante, che lui ritrasse a fatica. Poi le disse ancora:
«Zitta, zitta, non gridate, che c’è gente nell’altra stanza. Zitta, e non vi preoccupate, che si aggiusterà tutto.»
Quindi Comare Filippa si alzò facendo cadere la sedia impagliata su cui stava seduta. Mise la mano nel petto e, da sotto la camicetta nera, cacciò fuori una banconota da cinquanta euro e la mise sulla scrivania.
«Abbastanu?»
«Sì, grazie, bastano, bastano. Andate e non vi preoccupate di niente. Penserò io a tutto.»
Erano anni che Mastru Vitu, U Magaru, come lo chiamavano i suoi concittadini, prestava soldi senza carte scritte, senza assegni e bonifici.
Lui si fidava ed essi pagavano tutti puntualmente per paura.
Chissà quale sortilegio avrebbe potuto evocare il magaro in caso di ritardo nel saldo o di un salto nei mensili. Così, facendo leva sulla paura, poteva stare tranquillo e i pagamenti, nonostante gli interessi non proprio bancari, affluivano sempre puntuali.
C’era stato uno, don Gilberto, che s’era suicidato a causa dei troppi debiti contratti con Mastru Vitu. Ma erano incidenti di percorso di gente debole, incapace di affrontare la vita. C’era chi si era pure prostituita per riuscire a pagare. Ma anche in quel caso si era trattato di un incidente di percorso e poi, Luana, era già avvezza a certi atteggiamenti.
S’era, intanto, fatta sera.
I contadini tornavano dalla campagna mentre il sole inondava di sangue le più alte cime dell’Aspromonte lassù, dietro il campanile del Duomo.
Una frotta di ragazzini sciamò verso la piazza rincorrendo un pallone, si sentiva una voce di donna cantare lontano verso la fontana della Vergine.
Mastru Vitu aveva acceso la lampadina nel suo studio piccolo e pieno di polvere.
Lei era tornata anche quella sera.
Era seduta là, sulla solita sedia impagliata, davanti a lui, e scrutava la sua anima.
I rumori della strada arrivavano ovattati nella stanza appena illuminata dall’unica lampadina fioca, ma lui la vedeva chiaramente.
Veronica era bellissima, con il suo viso da bambina, i suoi occhi neri come la lava del Mongibello, i capelli corvini che lei aveva preso l’abitudine di spazzolare scrupolosamente ogni sera, guardandosi civettuola nello specchio della sua camera, prima di andare a letto, il suo viso dolce e la sua carnagione chiara.
Il cartomante percorse con i suoi occhi da vecchio i lineamenti della ragazza, le sue sopracciglia sottili che sembravano disegnate da un valente pittore, la fronte alta e fiera e poi il buco sulla testa da dove era fuoriuscito il proiettile che lei stessa aveva sparato mettendosi in bocca la pistola del padre e il sangue che defluiva incessante per andare a inzuppare i capelli neri che cadevano sulle sue spalle di ragazza non ancora donna, ma già follemente innamorata, mentre i suoi occhi neri, seri, tristi e penetranti fissavano quelli dell’uomo.
Lui guardò a terra, dove il sangue si stava già raccogliendo sul pavimento di mattoni di creta, poi le guardò le belle mani da pianista che teneva abbandonate sulle ginocchia, le vide lasciare il naturale pallore per rivelarne le vene e i muscoli e le ossa bianche mentre tutto il corpo lentamente si disfaceva e si riempiva di piccoli vermi bianchi che si nutrivano della sua stessa carne e il volto che diveniva scheletrico ed i pezzi di carne che si staccavano dalle ossa per rotolare giù lungo il corpo disfatto e sanguinolento.
«Ma cosa posso farti io, adesso, dimmelo, che cosa?!» urlò disperato il cartomante piangendo e con le mani giunte.
Lei lo guardò ancora a lungo, con uno sguardo duro e triste prima che anche gli occhi si spegnessero per rivelare le orbite vuote del teschio, ormai anch’esso disfatto e orrido. Ella non emise alcun suono, e poi, come ogni sera, lentamente la visione scomparve lasciando un odore di vomitevole marciume che ammorbò per qualche istante l’aria per poi svanire anch’esso.
Mastru Vitu guardò ancora una volta il pavimento dove il sangue di Veronica s’era raccolto e il posto vuoto lasciato dalla ragazza. Si alzò dalla scrivania, incespicando uscì dalla stanza e lentamente, quasi trascinando i piedi, si avvicinò alla porta d’ingresso, la aprì e guardò in alto verso il cielo.
C’era la luna piena, quella notte, una luna bianca grande e splendente, che il cartomante rimirò sperando che almeno essa potesse dargli conforto o consiglio.
Una civetta insisteva nella sera mentre uno stormo di uccelli neri gracchianti sfrecciò da una nuvola fino a quasi sfiorare il terreno per poi risalire velocissimo e appollaiarsi sul mandorlo già in fiore di fronte alla sua casa.
Nel cielo una nube copriva a tratti qualche stella per farla ricomparire poco dopo e permetterle così di tornare a brillare nella notte primaverile.
Un venticello che il cartomante sentì gelido faceva appena tremare il vetro rotto di un lampione della strada facendolo frinire debolmente.
Lei era tornata, come ogni notte, per ricordargli la sua colpa.
Lui non aveva paura. Già troppe volte aveva fatto ritorno e anche quella sera provò angoscia, tristezza e disperazione… ma paura no. Non aveva paura, il vecchio cartomante, ma una morsa gli stringeva il cuore e l’anima in una stretta che non lo faceva respirare e che lui intuiva terribilmente eterna.
Si appoggiò con la testa allo stipite della porta aperta e guardò ancora una volta verso il cielo, come per chiedere spiegazione o grazia o pietà… e si sentì vecchio, inutile e solo.

Foto: accademiaoep.com

Redazione

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