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Costume e SocietàLetteratura

La lettera

Il Cartomante di Torre Normanna VIII


Edil Merici

Di Bruno Siciliano

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Erano le nove di Domenica mattina. L’appuntato Cristina del Buono aveva poggiato sulla scrivania di Luciano Stracuzza l’ennesima tazzina di caffè quando il telefono cominciò a squillare.
«Carabinieri!» esclamò il maresciallo.
«Maresciallo, sono Salina, della scientifica di Reggio Calabria. Fra una mezz’oretta saremo in caserma.»
«Sì, vi aspetto.» Rispose il maresciallo con un buon sapore di caffè in bocca. Poi, rivolto a del Buono aggiunse, dopo aver chiuso la comunicazione:
«Sono della Scientifica, stanno arrivando. Si prepari, che verrà con noi a casa di Mastru Vitu. In caserma resteranno Salincelo e Fragalà.»
«Comandi» rispose Cristina, scattando sull’attenti e sorridendo, in cuor suo.
Il vento di scirocco di quegli ultimi giorni, filtrando dagli infissi vecchi e sconnessi, aveva aggiunto altra polvere sui mobili e sul pavimento della casa di Mastru Vitu. La caserma non distava molto dalla casa e gli agenti avevano preferito andare a piedi, a casa del cartomante. Alvaro, uno degli agenti della scientifica, nel pur breve tragitto, non aveva staccato neppure per un solo attimo gli occhi dalle belle forme di Cristina che, pur essendosi accorta degli sguardi del collega, aveva fatto finta di niente, orgogliosa, però, dei silenti apprezzamenti del militare.
Donna Rosina, il giorno prima, alla domanda del maresciallo su dove il Cartomante avesse potuto nascondere i soldi e i documenti, aveva preso a scorrere con le dita la scrivania nell’ufficio del maresciallo quasi per carezzarla. Il maresciallo Stracuzza, allora, rivolgendosi ai colleghi della scientifica, disse: «Cominciamo da quella» e indicò la buffetta che faceva bella mostra di sé al centro dello studiolo del cartomante.
I cassetti furono tolti di nuovo ed esaminati uno per uno, il tavolo fu capovolto e poggiato per terra, perché il fondo fosse esaminato più agevolmente e Alvaro bussò con le nocche sulle tavole che lo componevano. Fu a questo punto che Cristina notò una cosa strana:
«Una buffetta con i piedi di ferro!»
Era una singolarità. Quel mobile, per definizione, era un prodotto di arte povera. Un oggetto che serviva ai contadini come semplice appoggio per il desinare, spesso rozzamente costruito dal capofamiglia stesso. Perché, allora, quella buffetta era provvista di piedini in ferro? La ragazza si avvicinò istintivamente e provò a svitarne uno, poi un altro e un altro ancora. I primi due non rivelarono nulla di strano ma il terzo diede accesso a un ricettacolo scavato nel piede stesso. Alvaro scostò con garbo la collega e, con delle pinze apposite, estrasse una chiave fine e lunga. Inequivocabilmente era la chiave di una vecchia porta.
Tutti gli infissi della casa furono, allora, esaminati, ma nessuno di essi poteva essere aperto da quella chiave.
Quale porta avrebbe mai potuto aprire?
Una delle cose più belle che ti può capitare in Calabria è l’Estate. Dalla collina sulla quale era sdraiata l’intera cittadina in cui si succedevano queste vicende, si dominava tutto il territorio circostante. Laggiù, in fondo a destra, il mare Ionio, che si unisce senza soluzione di continuità al cielo azzurro non velato da alcuna nuvola, a sinistra le campagne assolate e ridenti e alle spalle le montagne azzurre come il mare, che contrastano con il verde delle campagne costellate da fiori rossi, viola e bianchi. Uno spettacolo della natura che invita alla pace e alla serenità più completa mentre l’aria fine, tersa e profumata, ti riempie i polmoni e ti fa immaginare tutte le bellezze del creato.
L’ufficio di Stracuzza era, invece, l’esatto contrario. L’aria era resa irrespirabile dai sigari del maresciallo, che aveva un diavolo per capello. La dottoressa Trombetta-Basso aveva già telefonato due volte e, in entrambe i casi, gli aveva promesso che se non ci fossero stati progressi lo avrebbe sollevato dall’incarico.
L’appuntato Cristina bussò timidamente alla porta dell’ufficio di Stracuzza.
«Avanti!» urlò Luciano con una voce da baritono che avrebbe fatto invidia a qualunque lirico italiano. Timidamente, l’appuntato del Buono fece il suo ingresso nella stanza in cui il maresciallo sbraitava vistosamente.
«Volevo suggerirle, maresciallo, che quella chiave potrebbe essere quella della porta di una casa di campagna.»
«Anche ammettendo che lei abbia ragione, appuntato, di quale casa? In quale campagna? Ragioni!»
«Appunto, io pensavo di recarmi al catasto e vedere quali terreni sono intestati al Signor Mastrangelo Vito» rispose l’appuntato con un insospettabile e serafica calma, pensando anche in cuor suo: “Ti ho fregato, vecchio bacucco, con la tua boria e tutti i tuoi ragionamenti del piffero!”

Il maresciallo era stato colpito nell’orgoglio da una cretinetta qualunque, che gli dava prova di calma, sintesi e acume condensando tutto in una frase che aveva anche la sua logicità.
«E cosa sta aspettando? Prenda la macchina di servizio e ci vada subito, al catasto! Marsh! E si porti Salincelo! Vada!»
«Comandi» rispose Cristina, scattando sull’attenti e uscendo dall’ufficio di Stracuzza.
Non erano più i tempi del fumatore di pipa. Eppure era passato poco più di un anno da quando da solo aveva risolto l’intricata matassa di quell’omicidio, del quale nessuno riusciva a capirci nulla. Che cosa era cambiato, da allora?
Una sola cosa: adesso lui aveva Giulia e si era adagiato e anche arrugginito.
Quando Giulia non c’era lui era più riflessivo, più attento. Avrebbe scoperto lui stesso il fatto dei piedi della buffetta così come l’idea dell’ufficio del catasto. Adesso tutto stava diventando difficile come se aver conquistato Giulia lo ottenebrasse e gli impedisse di mettere in funzione quell’acume e quel discernimento che gli era stato tanto utile in tutti i casi precedenti.
Ma non era possibile che l’amore soddisfatto fosse così deleterio, così incredibilmente debilitante!
Avrebbe dovuto dire a Giulia di allontanarsi per un po’ di tempo, andare da sua madre, per esempio. Ma a che cosa sarebbe servito? Giulia, poi, con la sua gelosia, non avrebbe mai accettato. Specialmente adesso, con la presenza di Cristina in caserma.
“A proposito, Cristina è proprio un bel bocconcino, chissà cosa ne penserebbe se una sera, con la scusa del servizio, andassimo a mangiarci una cosa assieme?”
Fu solo un attimo, poi Luciano, per scacciare i suoi cattivi pensieri, accese un puzzolentissimo toscano e si meravigliò di se stesso. Non avrebbe mai dovuto permettere alla sua testa di formulare quelle cose, specialmente quello che riguardava l’appuntato del Buono. Ma il solito maligno gli suggerì: “L’uomo è cacciatore e ogni lasciata è persa…” poi spense il sigaro che aveva acceso più per abitudine che per voglia, indossò il berretto d’ordinanza, si rassettò la divisa, uscì dalla caserma e affrontò la calura estiva di quel maledetto paese sdraiato sulla collina tra cielo e mare. L’estate lo abbracciò con tutta la sua afa asfissiante e il maresciallo pensò di rifugiarsi nel bar di Peppe sotto il soffio di un condizionatore che il titolare teneva a palla.
«Me la porti una granita delle tue?» disse il maresciallo mentre si sbottonava la giacca e si allentava il nodo della cravatta.
«Che gusto?»
«Corna ’i mammata! Sto morendo dall’arsura, il gusto che vuoi tu!»
«Subito, maresciallo» rispose Peppe dal retro del bar. Poi, portando una granita al mandarino, chiese al maresciallo:
«Maresciallo ve la posso fare una domanda?»
«Dimmi» rispose il maresciallo aggrappandosi al bicchiere che conteneva la preziosissima granita.
«Non vi arrabbiate, però.»
«Peppe, con questo caldo non avrei la forza di reagire neanche se mi prendessero a schiaffi.»
«Ma voi state indagando bene sulla famiglia di Mastru Vitu?»
«Non siamo riusciti a trovare nessuno, come se fosse un senza famiglia.»
«E qui vi sbagliate. La famiglia di Mastru Vitu risiede ancora a Detroit, nel Michigan, e io ho una lettera con tanto di busta e indirizzo che avrei dovuto consegnare a Mastru Vitu se lui non fosse morto. Oh, caspita, maresciallo l’avevo messa qui, la busta accanto alla macchina del caffè e s’è un pochino macchiata, comunque eccola.»
«Grandissimo figlio di puttana! Adesso me lo dici che hai una lettera del cartomante?! Stiamo facendo interpellanze su interpellanze all’ambasciata americana per avere sto cazzo d’indirizzo e tu me lo dici così?!»
«Io ve l’avevo chiesto prima se vi arrabbiavate e voi mi avevate praticamente detto di no. Ma sapete, tra il bar, i turisti, i dipendenti e la moglie…»
«Non me ne parlare, zitto, non parlare di mogli e compagne, ti prego, e dammi sta stramaledetta lettera.»
Fu così che il maresciallo prese la lettera, non finì la granita ma aprì la busta e, senza accorgersi, si alzò e, leggendo, si diresse in caserma.
Erano poche righe in un italiano incerto e sgrammaticato, tipico degli emigrati italiani del secolo scorso, che Stracuzza lesse praticamente d’un fiato.
“Vitu tu no mmandi cchiù dinari e chisti mi stanno rumpendu i cugghjiuna ogni jornu. Vidi u mandi quarchi ccosa gni tantu comu facivi una vota. Tuo frate Saveriu.”
Una vagonata di domande piombò sulla testa di Stracuzza mentre riponeva la lettera nella sua busta e la infilava nella tasca della divisa.
A chi doveva mandare Mastru Vitu, i dinari? Perché li doveva mandare? Potevano avere a che fare in qualche modo con l’omicidio?

Foto: spedire.com


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