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Costume e Società

Il mito del “fajetto” e il tesoro nascosto tra Samo e Ferruzzano


Edil Merici

Per quanto incredibile possa sembrare, Omero lasciò all’umanità la più preziosa delle ricchezze. Un’eredità senza la quale il corso della storia sarebbe stato lineare e noioso come un cammino senza meandri. Privo di entusiasmi, insomma, di emozioni, senza particolari a cui dedicare la giusta dose di attenzione. È pertanto un dovere civico riconoscere che Omero fu uno dei più grandi propugnatori del fantastico mondo delle fiabe: “Dimoran per le cime, o in antri cavi; sulla moglie ciascun regna e sui figli; nell’uno all’altro tanto o quanto guarda”. Ci parlò infine di Scilla e Cariddi, di Nausicaa, di Circe e via discorrendo.
Era davvero sottile il filo che separava la realtà dalla fantasia. Lo era allora. Lo è tutt’oggi. Specie quando si tratta di storie che fanno capo a leggende tramandate di generazione in generazione. E qui da noi, a partire dai tempi dei greci, di leggende ne sono state narrate tante da riempire il Mediterraneo tutto. Escludendo le più famose, ormai note, le restanti, cioè quelle di minore importanza, si sono perse (ahimè!) oltre i nostalgici tramonti della storia. Fortuna che noi abbiamo ripescato (se non altro per confermarne l’esistenza) alcune di esse. Anzi, una in particolare: u fajettu o mazzamareddu, il leggendario folletto aspromontano che durante le notti di pioggia si introduceva furtivamente nelle stalle, dove si dilettava a intrecciare le chiome ai muli e ai cavalli. Ma non si industriava solo in questo.
Ai tempi di cui mi accingo a narrare, mentre gli uomini si perdevano nel loro fabbisogno quotidiano, nelle nostre foreste vivevano diverse comunità di folletti. Questo recita il racconto di cui stiamo parlando.
E siccome i folletti, oltre essere delle creature schive, erano degli individui notturni, risultò pressoché impossibile, per gli uomini, stabilire un contatto con loro.
Cosicché i componenti dei due mondi vissero le loro sorti separati da una specie di barriera permanente. Una barriera che non solo separava il giorno dalla notte, ma il mondo della realtà da quello della fantasia. Salvo alcuni casi in cui a rompere l’incantesimo ci pensarono i pastori o i carbonari che passavano le notti tra i monti. Molti di essi, seppure parlarono con reticenza della loro esperienza, ebbero la fortuna di imbattersi in queste creature e, in alcuni casi, di trascorrere con essi le notti d’inverno. Così pastori e carbonari rimanevano con i fajetti davanti alla luce di un focolare rurale ad arrostire castagne, bere vino e raccontarsi gli uni le abitudini degli altri con l’impegno, naturalmente da parte di entrambi, di non rivelare ciò di cui erano venuti a conoscenza. I fajetti o mazzamareddi erano degli esserini di colore olivastro, piuttosto goffi che, seppur paragonabili a un umano di piccole dimensioni, possedevano le fattezze di un gatto, forse di uno scoiattolo, c’è chi dice addirittura di un grosso gufo. Non si sa con certezza. Quello che invece sembra certo è che questi curiosi esserini amavano le burle.
Atti di ogni genere venivano, infatti, portati a termine a danno degli animali delle stalle: bere il latte dalle mammelle delle pecore, ad esempio, far scalpitare le vacche e, in diversi casi, succhiare il sangue degli animali.
Tra tutte le storie che si sono potute raccontare circa queste affascinanti creature notturne, la storia che incuriosisce di più e che ci accosta al mondo delle fiabe (tra incantesimi e sortilegi, salvezze e compensi) è quella del folletto salvato da morte certa da un povero pastore.
Fu come segno di gratitudine a tanta magnanimità che il folletto rivelò in seguito al pastore un importante segreto. Gli svelò, infatti, il punto esatto (nel tratto un tempo conosciuto come via dell’argento, precisamente tra Samo e Ferruzzano) in cui giaceva sotterrato un forziere colmo di monete d’oro.
La leggenda vuole che in una fredda notte di febbraio – l’Aspromonte sonnecchiava sotto una fitta coltre di neve – uno dei folletti di ritorno da una fattoria nella quale aveva perpetrato le sue burle a danno di alcuni animali domestici, fu assalito da un branco di lupi. Ridotto in fin di vita, riuscì a salvarsi arrampicandosi sopra un albero. Ma sarebbe morto comunque, forse assiderato o per le ferite riportate, se non fosse stato che un pastore, avvertendo la presenza dei lupi, temendo che stessero per assalire il gregge, li cacciò via a fucilate. Fu dopo quel trambusto che il folletto si lasciò cadere dall’albero e che il pastore si accorse di lui. Il povero mandriano, benché non avesse idea di cosa si trattasse, portò il folletto dentro il suo capanno per sottoporlo alle dovute cure.
Il folletto ci mise una decina di giorni (a forza di mangiare toma, latte e formaggio) a riprendersi, e altrettanti per arrivare a essere nelle condizioni di lasciare il capanno.
Ma prima di farlo volle compensare il disturbo arrecato al pastore. E lo fece nel migliore dei modi, rivelando cioè il luogo in cui era seppellito un forziere contenente una cospicua somma in monete d’oro.
Forziere che, in seguito, fu realmente recuperato dal pastore, facendo di lui, nell’arco di poco tempo, uno degli individui più ricchi dell’entroterra aspromontano.
Benché la pressoché totale certezza che si tratti di una fiaba, ci piace pensare che questa storia contenga una certa dose di verità e che altrettanto vero sia l’accostamento del nostro mondo a quello che, sin dai tempi di Omero, e forse anche prima, ha costellato di fascino e magia le nostre misere esistenze.

Foto: adria.italiani.it


Birra

Francesco Marrapodi

Francesco Marrapodi approda a Métis dopo aver ricoperto importanti ruoli in altre testate giornalistiche. 
È stato Redattore Capo per la provincia di Reggio Calabria de “L’Attualità”, collaborato con “Calabria Letteraria” e con “Alganews”, nonché con la testata giornalistica “In Aspromonte”. 
Ha studiato tecniche e metodi di scrittura del “Gotham Writers' Workshop”, è stato inserito nell’antologia “Ho conosciuto Gerico” in onore di Alda Merini con la poesia “La Nova” e fa parte dell’“Unione Poeti dialettali di Calabria”.
L’8 agosto del 2014 ha realizzato sulla spiaggia di Bianco una statua di sabbia raffigurante Papa Francesco, evento recensito da “Famiglia Cristiana” per il quale ha ricevuto il ringraziamento e la benedizione del Papa in persona. 
Si è reso inoltre promotore di una campagna contro l’inquinamento marino con “La morte di Poseidone”, statua di sabbia che ha suscitato grande interesse in tutto il mondo. 
Francesco è oggi un punto di riferimento redazionale su Bianco e dintorni, con un ruolo di primo piano nella Redazione Cultura.

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