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Costume e SocietàLetteratura

Наталина

Natalina - Solo due mesi d’amore


Edil Merici

Di Bruno Siciliano

⚠️ ATTENZIONE!
Scorri in fondo all’articolo per ascoltare questo capitolo del romanzo letto dalla viva voce di Bruno Siciliano!

I soldi stavano per finire. Oddio, c’era ancora qualcosa nella Postapay Evolution che usavo per ricevere i soldi del giornale, ma erano ormai due mesi che non vendevo neanche una foto.
L’orologio luminoso della mia vecchia Panda 4×4 nera segnava le 2:23 mentre il tergicristallo tentava di spazzare via le gocce di pioggia dal parabrezza.
Tentava, perché le spazzole logore ne lasciavano una buona parte sul vetro, mentre il resto veniva spalmato malamente, tanto da lasciare delle strie attraverso le quali cercavo di scorgere l’asfalto, reso viscido dalla pioggerellina fastidiosa che s’era messa a cadere dal primo pomeriggio.
Nonostante il riscaldamento della Panda, sentivo freddo. Un gelo che mi entrava nelle ossa per propagarsi lentamente e arrivare al cervello. L’autoradio trasmetteva musica Jazz di quella che ascolti volentieri se sei in compagnia, in bella compagnia, intendo, ma che quando sei solo ti mette una tremenda malinconia e ti riempie il cuore di tristezza.
La spensi. Meglio il ticchettio della pioggia sulla macchina, pensai.
Bisognava fare nafta. Cento metri più avanti vidi l’insegna di un distributore automatico, misi la freccia e accostai alla colonnina. Le mie mani cercarono nelle tasche del giubbino, poi in quelle dei pantaloni e rinvennero una banconota da dieci euro stropicciata e logora. Doveva andare bene e la infilai nella fessura luminescente della macchinetta che, come prevedibile, me la risputò fuori una, due, tre volte. Imprecai anch’io una, due e tre volte, poi stesi la banconota sulla macchinetta per eliminare le grinze e darle una parvenza di legalità. Non so per quale mistero della tecnica stavolta il mostro infernale la trattenne e io potei erogare il prezioso e puzzolente liquido che mi sarebbe servito per ritornare a casa. Stavo per rientrare in macchina quando udii un lamento, forse un gatto, un gattino randagio proprio là, dietro le piante che contornavano il distributore. Povero gattino, pensai, con questa pioggia chissà come sarà fradicio. Così, piuttosto che rientrare in macchina, mi avvicinai verso il luogo da cui provenivano i miagolii. Lo porto a casa, pensai, lo rifocillerò e poi chissà? Lo libererò domattina. La mia innata anaffettività mi impedisce di avere per casa bestie o, peggio ancora, persone per più di una notte o due.
La luce dei lampioni non arrivava fino all’angolo da cui proveniva il miagolio, così accesi la luce del cellulare, che illuminò una cosa informe, che si muoveva appena. Una ragazza, sdraiata a terra. Una drogata, pensai subito, poi mi avvicinai ancora di più.
«Ehi, bella, che ci fai là, hai bisogno di aiuto?»
Non rispose e mi guardò appena.
“Dio, quanto sei bella” pensai, poi mi avvicinai ancora di più, cercai di scuoterla e ritrassi la mia mano imbrattata di sangue.
«Ma che cos’hai?!»
Lei non ebbe la forza di rispondere nulla. Allora, con un’incommensurabile dose d’incoscienza, le cinsi il corpo esile e la presi in braccio.
La ferita che aveva sulla schiena sanguinava abbondantemente e anche una gamba era sicuramente ferita, perché i suoi jeans erano strappati e macchiati di sangue.
«No police, please» sussurrò, in un barlume di coscienza.
«No, che police, io ti porto in ospedale e se la vedranno loro.»
«Please, please, no Hospital. No, please. Porta me with you. Salva me, please
Era una bella pretesa! Portarmi a casa una sconosciuta, e pure sanguinante.
Ma porca di una porca miseria! Tutte a me!
Il suo corpo sapeva di pioggia e di profumo da quattro soldi.
La stesi sul minuscolo sedile posteriore, meno male che il suo corpo era minuto ed esile e riuscii a metterla più comoda possibile.
Al diavolo la tappezzeria, ormai tutta macchiata di sangue.
«Ehi, piccola, come ti chiami… Non ti addormentare, resta con me. Parlami!»
Non so in quale film avevo visto che bisogna parlare ai feriti per non farli entrare in coma.
«Biondina, come ti chiami? Parlami!»
«Natalina» sussurrò appena, poi aggiunse: «The bag, please take my bag
«La sacca? Quale sacca?» chiesi facendole eco, ma lei non rispondeva già più, per cui uscii di nuovo dall’auto e cercai nel cespuglio dove prima era sdraiata la ragazza. Eccola, la bag. Era pesante, ma l’agguantai saldamente e la misi nel portabagagli, poi rientrai in macchina.
«Bella, adesso possiamo andare?»
Ma lei non emise neanche un fiato. “Cazzo! Pensa se mi muore in macchina! Me lo faranno i colleghi l’articolo con tanto di fotografie, mentre mi portano in galera, altro che!”
Diedi un’accelerata secondo il mio stile e imboccai la strada di casa.
Salii come al solito sul marciapiedi accanto al portone, poi aprii lo sportello e la ripresi in braccio. Una bella macchia di sangue spiccava adesso sul sedile posteriore della mia auto, già per altri versi abbastanza sporco e maltrattato. Beh, ci penseremo domani.
Un lamento le sfuggì dalle labbra mentre salivo le scale per entrare in casa. Finalmente il pianerottolo!
L’appoggiai sopra un ginocchio, addossandola al muro mentre cercavo le chiavi di casa.
«Buonasera, professore»
Era la signora Caruso, la mia dirimpettaia che non dorme mai e che, sentendomi arrivare, aveva aperto la porta di casa sua.
«Cos’ha, si è sentita male?»
«No, è ubriaca e la faccio dormire un poco prima di farla rientrare a casa.»
«Lo sa che lei è proprio un porco, vero?!»
«Sì, lo so, signora. Del resto c’è lei che, se proprio lo dimenticassi, è sempre pronta a ricordarmelo! Buonanotte, signora, e grazie per le sue premure!» risposi mentre aprivo la porta di casa ed entravo velocemente nell’appartamento con il mio fardello tra le braccia.
«Buonanotte!» rispose la vecchia arpia sbattendo la porta.
Adagiai Natalina sul mio letto.
Un letto grande, matrimoniale, unico cimelio che avevo voluto portarmi appresso dalla casa dei miei quando avevo interrotto definitivamente i rapporti con loro.
Poi la spogliai lentamente, come si sfoglia un fiore, per non farle troppo male. Lei si lamentava flebilmente a ogni movimento e mi ripeteva a tratti la sua solita nenia: «No police, please
Le tolsi il giubbino sporco di terra e fradicio di pioggia, una semplicissima T-shirt le copriva un reggiseno imbrattato di sangue e troppo grande per le sue forme minute, le tolsi anche quello e vidi anche il suo addome. Una bambina incinta, ecco cos’era la creatura che avevo sdraiato sul mio letto. Le tolsi anche i jeans sporchi e logori non per tendenza, ma per le evidenti disavventure che l’avevano condotta fino al luogo in cui l’avevo rinvenuta. La girai con delicatezza bocconi e presi a esaminare la ferita all’altezza della scapola sinistra. Era stato un colpo di pistola che l’aveva attraversata da parte a parte. Il proiettile non era stato trattenuto, ma era fuoriuscito causando un’altra ferita sul davanti. Pulii la ferita poi tamponai, disinfettai con quello che avevo in casa e le misi una benda. Poi mi preoccupai del polpaccio. Un altro buco da arma da fuoco, questa volta con il proiettile dentro. Pulii anche quella ferita, poi cercai in casa. Mi serviva qualcosa per estrarre quel maledetto coso conficcato nella gamba di quell’esserino che continuava a lamentarsi.
Cercai freneticamente tra gli strumenti che mi servono per riparare periodicamente il mio PC e costringerlo a funzionare nonostante la sua veneranda età. Una pinza, un cacciavite, un tagliacarte… Passai tutto sulla fiamma di una candela usata spesso nelle mie notti brave, poi mi avvicinai di nuovo a lei. Disinfettai, scavai nella ferita e, con la forza della disperazione, cacciai fuori il maledetto. Un calibro 38 che tintinnò sinistramente nel cadere nel portacenere che stavo usando per raccogliere le bende e le garze imbevute di disinfettante. Un urlo di dolore accompagnò l’estrazione, quindi la ragazza tacque e sembrò addormentarsi. Io l’abbracciai d’istinto e sentii il suo alito sulla mia bocca che, senza volerlo, le dispensò un bacio.
Poi mi ritrassi impaurito.
Ma che cazzo stava succedendo?
Dio dell’immensità, fa che sia stato tutto un sogno!
Fammi svegliare e dimmi che tutto questo è solo un incubo insopportabile!
Le sfiorai le guance. Aveva la febbre, e alta, pure.
Presi dei tovaglioli, li bagnai appena e glieli misi sulla fronte. Lei aprì gli occhi chiari color del cielo sereno e sussurrò: «Thank you.» Poi li richiuse e tacque.
“Si, vabbè – pensai. – Volevo solo fare nafta e tornare a casa… Thank you un cazzo!”


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Redazione

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