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Politica

Essere o avere

Di Maria Concetta Valotta

Negli ultimi mesi molte indiscrezioni ritenevano Mario Draghi sempre più insofferente nei confronti della maggioranza parlamentare. Specialmente dopo la mancata elezione a presidente della Repubblica, carica a cui, secondo molti osservatori, l’e premier ambisce manifestamente. Prevedendo le difficoltà che avrebbe presto incontrato nel portare avanti le riforme con l’incombente campagna elettorale per le amministrative e la successiva per le elezioni politiche alle porte, governare con il consenso di un’ampia maggioranza era diventato evidentemente più difficile, specialmente per via dell’ambiguità di posizioni della Lega.
Il partito di Matteo Salvini, fin dalle prime settimane di governo, aveva infatti mantenuto un atteggiamento bivalente che ricordava spesso quello di un partito di opposizione, per provare a non perdere troppi consensi nei confronti di Giorgia Meloni, che nel frattempo stava diventando la leader annunciata della coalizione di centrodestra anche traendo vantaggio dall’essere l’unica apertamente schierata all’opposizione.
La scorsa settimana, abbastanza a sorpresa, Draghi ha deciso di criticare nemmeno troppo velatamente questo atteggiamento di Salvini. Si è presentato al Senato con un discorso apparentemente lusinghiero sul lavoro fatto dalla maggioranza in questi primi 17 mesi, elencando i risultati ottenuti e asserendo che «il merito è stato vostro», salvo poi usare toni sempre più duri e poco concilianti con parole quasi ostili nei confronti di tutti i partiti ma specialmente della Lega, pur senza mai citarla. Draghi ha criticato chi ha sostenuto le proteste dei tassisti contro la riforma della concorrenza, e ha parlato di «un progressivo sbriciolamento della maggioranza» in riferimento alle riforme del catasto e delle concessioni balneari, due tra le più osteggiate dal centrodestra.
Alla fine, con toni che il centrodestra ha giudicato provocatori, Draghi, diretto ai partiti, ha affermato: «All’Italia non serve una fiducia di facciata, che svanisca davanti ai provvedimenti scomodi. Siete pronti a confermare quello sforzo che avete compiuto nei primi mesi, e che si è poi affievolito? Sono qui, in quest’aula, oggi, a questo punto della discussione, solo perché gli italiani lo hanno chiesto. La risposta a queste domande non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani.»
Questa conclusione non è piaciuta per niente alla Lega. Chi era al Senato ha notato, per esempio, che i senatori non hanno applaudito: era evidente che fossero sorpresi, delusi e indispettiti dai contenuti e dai toni usati da Draghi. Lega e Forza Italia erano arrivati a mercoledì mattina dicendo ufficialmente che avrebbero continuato a sostenere il governo se il Movimento 5 Stelle fosse uscito dalla maggioranza. Ma a molti sembrava che avrebbero potuto accettare di proseguire soltanto se Draghi lo avesse chiesto nel modo giusto, omettendo i riferimenti alle tante questioni aperte su cui il centrodestra chiedeva di ammorbidire le riforme in discussione, dai taxi agli stabilimenti balneari, o le critiche rivolte a proposte come lo scostamento di bilancio.
Dopo il discorso della scorsa settimana, invece, è cambiato tutto e il centrodestra si è immediatamente riunito per ridiscutere il sostegno al governo.
Circolano interpretazioni e giudizi diversi sulla scelta di Draghi. A qualcuno è sembrato che il premier volesse chiarire di essere disposto ad andare avanti solo a fronte della disponibilità dei partiti a proseguire nelle riforme avviate fin qui, senza attenuarle. Ad altri è sembrato invece che Draghi abbia in qualche modo voluto sabotare da subito delle trattative che sembravano possibili, se avviate con toni più concilianti. E questa impressione ne confermava una che era emersa già il giorno prima, quando Draghi aveva causato un incidente diplomatico fissando un incontro per parlare della crisi con il segretario del Partito Democratico Enrico Letta, senza fare lo stesso coi leader del centrodestra, irritando Silvio Berlusconi e Salvini che ne avevano poi ottenuto uno in serata.
Nella riunione a casa di Berlusconi, dopo il discorso di Draghi al Senato, il centrodestra ha evidentemente deciso che la cosa migliore fosse provare ad andare alle elezioni anticipate. Da tempo i sondaggi danno la coalizione di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia come acanti nel distacco nei consensi e molti retroscena parlavano di “liste dei ministri già pronte” per la coalizione. Tradizionalmente, il centrodestra non sceglie prima delle elezioni chi candidare a presidente del Consiglio, sostenendo che questo ruolo spetti al leader del partito più votato: se i risultati delle elezioni confermeranno cosa dicono i sondaggi, quindi, sarà Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia.
La coalizione ha quindi accusato Draghi di essersi sbilanciato troppo verso il centrosinistra, riservando un trattamento di favore a PD e M5S. Ha proposto una serie di condizioni a Draghi per continuare a sostenerlo: un nuovo governo con nuovi ministri, senza il M5S, e con un programma diverso.
Era evidente che queste condizioni sarebbero state rifiutate perché Draghi aveva ribadito più volte di non essere disposto a governare senza il M5S e “l’unità nazionale” e che quindi si sarebbe aperta la crisi di governo, cosa che puntualmente è successa: Draghi ha chiesto che si votasse la fiducia sul suo discorso, un modo per chiedere quali partiti accettassero le sue condizioni e quali invece no.
Hanno votato a favore il PD, Liberi e Uguali e i partiti di centro. Lega e Forza Italia non hanno partecipato al voto, provocando ufficialmente la fine della maggioranza che sosteneva il governo. Il M5S, che nel frattempo era scomparso dalle cronache perché diventato improvvisamente poco rilevante, visto come si era messa la crisi, si è accodato. Ormai non contava più granché: era evidente che il governo, senza il centrodestra, sarebbe caduto a prescindere dal resto.
Nel suo discorso Draghi ha detto abbastanza chiaramente che non riteneva ci fossero più le condizioni per continuare a governare, sostenendo fosse venuto meno «il patto di fiducia sincero e concreto» che aveva tenuto inizialmente insieme la maggioranza. Diversi commentatori hanno individuato delle responsabilità anche nel comportamento e nelle scelte del presidente del Consiglio, ritenendo che abbia fatto pochi sforzi per risolvere la crisi e tenere in piedi il governo e unita la maggioranza.
Dopo il voto sul decreto Aiuti, il suo governo avrebbe potuto continuare a contare su un’ampia maggioranza anche senza il M5S. Per Draghi, però, era evidentemente importante avere il sostegno di quasi tutto il Parlamento, e lo aveva ribadito nel suo discorso: «Ritengo che un Presidente del Consiglio che non si è mai presentato davanti agli elettori debba avere in Parlamento il sostegno più ampio possibile».
Proprio nel rapporto di Draghi con il parlamento può essere individuato un ultimo fattore che ha contribuito alla crisi. Nel discorso in cui ha annunciato le intenzioni di voto del partito, la capogruppo del M5S al Senato, Mariolina Castellone, ha accusato Draghi di aver legittimato «la poca dialettica e uno scarso coinvolgimento del parlamento quasi fosse l’unica via che un governo ha per lavorare.»
Questo genere di accusa ha del fondamento, ma è anche decisamente retorica. La frammentazione politica e la fine del cosiddetto bipolarismo in Italia, hanno reso più complicata l’approvazione delle leggi in parlamento, incentivando i governi a ricorrere maggiormente ai decreti legge, alle leggi delega e ai voti di fiducia, strumenti con cui si può applicare il proprio potere di iniziativa legislativa.
Tra le leggi approvate dal governo Draghi è successo in circa 8 casi su 10.
Nonostante questo documentato svuotamento di poteri e funzioni del Parlamento, quella della scorsa settimana è stata la terza crisi di governo consecutiva a svilupparsi al Senato, dopo quelle del primo e del secondo governo Conte (in cui non si era arrivati al voto, ma erano arrivate prima le dimissioni perché era venuta meno la maggioranza).
Tra le dinamiche della politica più difficili da interpretare ci sono spesso le volontà, gli umori e i comportamenti dei gruppi parlamentari, più riposti e secretati e, di conseguenza meno raccontati rispetto a quelli delle espressioni personali dei leader politici. Le cronache politiche, per esempio, descrivevano come deteriorato soprattutto il rapporto di Draghi coi senatori: alla Camera le cose andavano meglio, tanto che il gruppo dei deputati del M5S sembrava essere in forte disaccordo con il ritiro del sostegno al governo deciso da Giuseppe Conte in accordo col proprio gruppo al Senato. Il brevissimo discorso di giovedì mattina di Draghi alla Camera, non a caso, è sembrato molto più cordiale: ma ormai le sue dimissioni erano inevitabili e irrevocabili.

Foto: leggioggi.it

Redazione

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