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Costume e SocietàLetteratura

La sacra prostituzione secondo Zaleuco e Senocrito

La Repubblica dei Locresi di Epizephiri XCI


Edil Merici

Di Giuseppe Pellegrino

Siamo a Locri (nel 617 a.C.) nella casa di Tirso, che ospita, in onore di Caronda, Zaleuco e Senocrito. La conversazione langue fino a che non vengono toccati temi cruciali per la polis. La conversazione era sul cibo e sulla necessità che fosse parco, come era in uso presso gli Spartani. Ma poi Caronda si smentisce.

Zaleuco accolse con soddisfazione la citazione del nomotheta, che subito smenti se stesso continuando:«Ma vedi, Legislatore, si narra che un sibaritide sia stato di recente a Sparta e abbia assaggiato la minestra nera dei soldati e abbia esclamato: “Ora capisco perché gli Spartani ardono di morire per la Patria; è sempre meglio della minestra che devono mangiare!”Intendo dire, o Splendente, che al cibo buono sono legati pure gli Dei. Quando Dioniso, travestito da Eracle, è sceso al Tartaro, una ancella si avvicinò al figlio di Giove e gli porse pane, passato di legumi, bue arrosto, polli lessati, nocciole abbrustolite, tranci di pesce, torte, focacce e vino, e dei flauti erano di sottofondo. Il Dio gradì. Ora, se gli Dei amano il buon cibo, non vedo perché agli uomini deve essere proibito.»«Gli Dei hanno in sé stessi il loro destino confutò Zaleucoe una vita senza fine li aiuta a non aver fretta nelle loro cose. Un arco breve di vita hanno gli uomini e in questo arco di tempo possono e devono fare quelle cose che saranno da tutti ricordati. Eracle, che era un semidio, per le sue fatiche non frammettè molto tempo. Anche per l’immortale Achille le Parche hanno tagliato presto il filo. Ed Ettore non visse molto più di lui. Ma presso le genti, tutti raccontano le gesta di questi uomini e semidei, poiché giammai hanno abbandonato la loro strada. Non si sono fatti rammollire da vesti milesiane e da piaceri effimeri. La vita è breve, Caronda – continuò il Magistrato guardando il nomotheta e ai piaceri si può attendere nel Tartaro in quella vita che continua dopo la vita, ma finché viviamo su questa terra dobbiamo essere attenti al bene delle genti, al rispetto della Armonia dell’Universo, perché, Caronda, non vi è niente che è lasciato alla “tukè”,al caso, e tutto è Ordine. Tutto è nelle regole che una polis si dà per la sua sopravvivenza. Tradire le regole è come tradire la propria gente. Un popolo senza regole, che vive nella smodatezza dei piaceri, non ha un grande destino.»Caronda voleva mantenere la conversazione leggera e conviviale. Il ragionamento di Zaleuco lo prese di contropiede, ma il concetto del Legislatore fu per lui come una frustata. Capì finalmente la grandezza del Magistrato. Se tutto nell’Universo era armonia e niente era lasciato alla “tukè” – la Fortuna – le regole erano già scritte e occorreva solo capirle. Atena, solo Atena, poteva aver dato allo Splendente in una sola volta le tavole delle regole e la chiave di comprensione delle stesse. Fosse solo per questo, il suo viaggio a Locri non era stato inutile. Per tutta la sera Caronda restò quasi estraneo alla conversazione, che cominciò a languire, poi decise di avviare un nuovo discorso che lo interessava e come sempre si rivolse a Zaleuco e domandò:«Dimmi Legislatore, da dove nasce l’usanza della Festa della Sacra Prostituzione?»«Caronda, sono convinto – rispose il Magistrato – che ogni popolo debba pagare le sue nefandezze. Noi paghiamo quelle dei nostri padri eroi. Sai bene che Aiace Oileo, sotto gli effluvi del vino, violò Cassandra, la notte della caduta di Troia. Saprai pure che Cassandra era sacerdotessa di Atena che maledisse Aiace con le parole: “O voi dimore di Oileo, figlio di Oidodokos; voi delle mie nozze violente sconterete la pena della dea agreste di Cigas allevando fanciulle per esporle al giudizio della sorte che lascia vergini sino alla vecchiaia”. Questa, Caronda, la maledizione di Cassandra. Da allora, come espiazione, due vergini vengono ogni anno inviate al tempio di Atena Iliaca e le vergini sono scelte sempre fra le donne delle Cento Case. Anche Locri contribuisce con una vergine. E non tutte arrivano alla meta. E noi discendenti di Aiace, dalla madre Locri che sta a oriente, condotti in questa terra da Evanto, continuiamo a portarci dietro l’orrore per il sacrilegio e il peso della millenaria espiazione, con il sacrificio delle nostre vergini, perché sempre sia ricordato che non può essere oltraggiata una dea o una sua sacerdotessa nella sua essenza di donna, e che il sacrificio delle figlie delle donne delle Cento Case ci riscatta da quella vergogna.»
Tirso a questo punto ritenne di dover intervenire:«Quante cose nefande, Zaleuco, si giustificano in nome degli Dei. Per quanto tempo occorre pagare un errore che non abbiamo mai commesso? Perché pagare in tanti e per così tanto tempo l’oltraggio commesso da uno solo? Penso, Zaleuco, che niente è eterno e tutto deve essere adeguato al cambiamento.Ciò che ha avuto un senso un tempo, non credo che l’abbia oggi.»
Il ragionamento di Tirso, pensò Zaleuco, aveva una sua logica e andava oltre la questione della Sacra Prostituzione. Tuttavia il Magistrato pensò di non prestarsi alla provocazione e di mantenersi sul generico, per cui rispose:«Penso che un popolo debba essere attaccato alla sue tradizioni, perché rappresentano le sue radici. Un popolo senza radici non rappresenta un corpo, una polis, ma solo un gregge senza guida, o un gregge pronto a sottomettersi al primo feroce pastore.»Senocrito capì che era il momento di intervenire. Lo preoccupava il silenzio del padrone di casa fino a quel momento, e poi l’improvviso intervento nella conversazione. Di Tirso ormai sapeva tutto e capì anche il suo recondito, pericoloso pensiero, come lo aveva capito sicuramente anche Zaleuco. Il poeta era spesso intervenuto nella conversazione, ma l’argomento culinario non lo attraeva, anche perché non mangiava né carne né pesce, ma solo verdura e formaggio.
Parlava di tutto il cantore, ma preferiva la poesia e la filosofia; preferiva la conoscenza venuta dei viaggi che aveva fatto, e che ora erano diventati rari. Capì che, solo portando la conversazione fuori dalla piega che aveva preso, si poteva evitare il grande imbarazzo che pervadeva il padrone di casa. La poesia accomunava tutti e Senocrito amava la poesia cantata, amatoria, amava la festa della Sacra Prostituzione che era fonte principale della sua ispirazione, poiché il doppio senso, l’amore carnale e lascivo era l’argomento preferito. Reinventava gli eroi e la sua fissazione era in quel momento Tirso. Ma il poeta provava per il giovane sentimenti di purezza assoluta. Per lui Tirso era Achille e Ulisse, Aiace Oileo ed Ettore. Era l’incarnazione assoluta della forza e della bellezza; della furbizia e della intelligenza. Era Afrodite e Ares. Tirso, la cui prima giovinezza aveva trascorso con maestri eccelsi, era conscio di questo sentimento. Non consapevole di ricambiarlo. Certo non era indifferente al poeta. Che usava ai suoi fini, ma guardava con timore, riverenza e affetto.«Come bene ha ricordato Caronda domani inizia la Festa della Sacra Prostituzione. Domani tutto è gioia e amore, c’è tempo per discorsi importanti. Domani – continuò Senocrito, – come dice il poeta soldato di Paro avremo modo di vedere:
“chiome profumate e larghi petti: anche in un vecchio la bramosia accendono”,e, dunque, con il poeta gridiamo:
“ah! come vorrei queste mani posare su te Neobule, stringerti…
premere sul bacino e possederti, strusciare ventre a ventre, cosce a cosce”.»Tutti risero alla uscita di Senocrito. Caronda era addirittura estasiato. Lo stesso Zaleuco tornò di buonumore. Ma il poeta sembrava un fiume in piena e continuò:«Io canto l’amore che unisce uomini e donne, canto l’amore che non tiene conto del sesso, canto l’amore che fa gioire, l’amore che fa soffrire, l’amore che ha portato il cantore Orfeo all’Ade per la sua Euridice, facendo piangere di commozione la sua Regina, e poi lo ha portato alla morte che le terribili Bistonidi Traci gli hanno inferto per l’amore che aveva per Kalais, inchiodando alla lira la sua testa mutila che gettata nel mare ha vagato, in cima ai flutti, fino a Lesbo, coprendo di melodia il mare.»
Tutti gli astanti ammutolirono, non solo per le parole del poeta, ma per la aperta confessione che il vecchio Senocrito faceva in pubblico per Tirso, ma che Caronda, ignorando la vita del poeta, non capiva nella sua portata reale, ma capiva per la sua forza poetica.
Il banchetto finì tardi e gli ospiti alla fine si accomiatarono. Caronda si fermò con i suoi servi e soldati da Tirso. Gli altri presero la via di casa, accompagnati ognuno da un servo. Solo Zaleuco tornò senza scorta alcuna e guadagnò la vicina casa.
Puntuali, al sorgere del giorno dell’inizio dell’estate, le cento vergini locresi, figlie delle Donne delle Cento Case, si recarono nei recinti sacri della peripoli. La grande Stoà era posta fuori delle mura della città e aveva ben undici “oikopoi”, stanze, situate a forma di ferro di cavallo. Al centro una grande statua di Afrodite e tutti intorno dediche alla dea dell’Amore.
Tanti gli stranieri venuti o sbarcati con le navi. Le fanciulle discinte erano a gruppi nei recinti sacri alla Dea Afrodite e aspettavano. Gli uomini che si avvicinavano portavano in mano una ghirlanda di fiori e la mettevano al collo della donna prescelta. La donna baciava l’uomo sulla guancia e poi i due si appartavano. Ma spesso più che sesso, era solo uno strusciare di corpi, una voglia espressa con le mani e con la bocca, poiché più di uno sceglieva la stessa donna, e la mancanza di intimità non favoriva la congiunzione. E poi le vergini locresi erano inesperte. Donne da poco tempo, non use all’amore, che in quel momento sembrava violenza. E tuttavia, la folla aumentava e i baci e i sospiri e le parole di fuoco arrivavano alla dea. Ma non si sentivano grida né sguaiatezze, solo inni all’amore consumato malamente e con l’ebbrezza dei sensi non controllati, come in un’orgia immensa e pubblica. Alcuni marinai mandavano alla Dea canti di amore e facevano danze mimiche allusive e licenziose. I più vecchi avevano imparato canti e danze a forza di partecipare a tante feste a Locri. Poi li avevano insegnate ai più giovani, raccontano il mito della Festa della Sacra Prostituzione. Nessuno di loro sapeva che quei canti e quei balli erano stati inventati a Locri e che Senocrito ne era l’autore. Il poeta sapeva della cosa. Poco gli importava che nessuno ricordasse il suo nome. Era sicuro che quei canti e quelle danze gli avrebbero dato l’immortalità.
Alla sera del terzo giorno, finita la festa, Ofelia, la donna più amata, fece contare le corone di fiori e i doni che aveva ricevuto. Trenta contò la sacerdotessa. E Ofelia fu la regina della Sacra Prostituzione. Portò le corone e i doni a Afrodite e a Persefone.
Così finiva la Festa.

Senocrito è un personaggio reale come tutti gli altri, in quanto lo stesso Tirso rappresenta la voce critica di Locri contro Zaleuco, seppur di fantasia e mai esistito, ma ispirato all’ateniese Alcibiade. Di Senocrito tocca l’onere di raccontare che ci sono poche e frammentarie informazioni. Musico e poeta lirico dell’antica Locri che visse, probabilmente, nella seconda metà del VII secolo a.C., la sua arte viene esaltata nel De Musica, dove viene posto tra i più grandi musici dell’antica Grecia e considerato uno dei principali rappresentanti (insieme ad artisti quali Taleta di Creta) della scuola musicale di Sparta, la più fiorente dell’antichità.
A Locri, Senocrito diede vita a una scuola musicale e poetica (alla quale parteciparono personaggi quali la poetessa Teano, Erasippo e Mnasea) nella quale introdusse le novità spartane e, in particolar modo, quelle relative all’introduzione di elementi dionisiaci nei canti corali.Tale scuola dovette avere grande successo e fece di Locri Epizefiri uno dei centri principali dell’antichità per quanto concerneva l’arte della musica e del canto e di Senocrito uno dei più apprezzati musici della sua epoca; infatti, riferendosi a Senocrito, Pseudo-Plutarco lo ricorda come colui che “fu l’inventore dell’armonia italica”.

Foto: newsartecultura.it


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