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Costume e SocietàLetteratura

La piccola ucraina che mi aveva conquistato il cuore

Наталина - Solo due mesi d’amore


Edil Merici

Di Bruno Siciliano

⚠️ ATTENZIONE!
Scorri in fondo all’articolo per ascoltare questo capitolo del romanzo letto dalla viva voce di Bruno Siciliano!

La commessa sparì per qualche minuto e tornò con delle scatole che aprì sul solito bancone chiedendo la mia opinione.
Io ne scelsi due, quelle che mi sembravano le più belle, poi le allungai la mia carta di debito cui mancavano trenta euro. Cercai nelle mie tasche e rinvenni delle banconote accuratamente stropicciate come quei dieci euro di qualche sera prima in quel distributore di benzina in fondo a Via La Farina. Gliele diedi e lei chiuse il conto consegnandomi un interminabile scontrino.
Avevo speso in mezz’ora quello che mi sarebbe servito per un mese. Avevo speso tutto per una ragazzina che… Lasciamo perdere.
Buttai in macchina le quattro bustone strapiene di roba.
Misi in moto e anche questa volta non sgommai dirigendomi verso Via Vittorio Emanuele.
Scalai a fatica i quattro piani di scale senza ascensore e nel mettere la chiave nella toppa udii delle allegre voci femminili provenire dall’interno del mio appartamento. Qualcuno stava amabilmente conversando con Natalina.
Era la signora Carla che, spacciatasi per mia zia, sciorinava alla piccola ucraina la sua vita fatta di serate di gala in Prefettura e di amore per il suo Vittorio, deceduto qualche anno prima dopo lunga malattia.
Il racconto era infarcito di consigli per la gravidanza, lei che, pur non avendo mai avuto le gioie della maternità, era comunque prodiga di consigli ed esperta in tutto.
Le due sembravano conoscersi da secoli e mi accolsero con gridolini di meraviglia e gioia nel vedere quello che le mie buste contenevano. Poi fu la volta della spesa che le due donne misero in un ordine che il mio frigo, fino a quel momento, non aveva mai conosciuto.
Casa mia stava diventando irriconoscibile.
Per una vita era stata accuratamente disordinata, solitaria e silenziosa, si erano sentiti frammenti di telegiornale intervallati da brevi brani di musica classica e poi il silenzio, un silenzio palpabile che infarciva i mobili e i quadri e che ti entrava nell’anima fino a che Claudia o Elvira o qualche altra allegra amica non rompeva l’ordine precostituito della casa con le sue false risate.
Adesso il cicaleccio di due pazze aveva preso il sopravvento su tutto.
Tutto stava cambiando, d’improvviso, così, dalla sera alla mattina.
Eccola là la vera autrice di questo cambiamento: una piccola e minuta ucraina che io, adesso, guardavo discutere di corredini e nascite con quella befana della Carla che era d’incanto diventata gentile, materna e dolce. Natalina, invece, sembrava una brava donnina di casa col suo graziosissimo pancino ed era riuscita a fare breccia nella mia corazza di egoismo e misantropia.
Non esiste la solitudine, diceva una vecchia canzone di Ornella Vanoni, perché con me ci sono sempre io. Ne avevo fatto la mia bandiera, di quelle parole, ma da quella sera, dalla sera in cui d’istinto l’avevo presa in braccio strappandola alle sterpaglie di quel distributore di benzina in fondo a Via La Farina, da quando avevo sentito il suo alito a pochi millimetri dalla mia bocca, d’improvviso tutto era cambiato e l’assenza di Natalina me la sentivo pesare ogni istante sull’anima.
La piccola ucraina, con la sua semplicità e con la sua fragilità aveva conquistato il mio cuore. A cena avevo bevuto una birra di troppo e forse era proprio la birra che mi faceva pensare in questo modo.
Natalina, a cena, aveva preparato i Nalesniki. Non chiedetemi cosa sono, io ancora non l’ho capito. So solo che sono buonissimi.
Finita la cena, la signora Caruso ci aveva lasciati finalmente soli.
Lei si era messa a rassettare e io mi ero alzato e l’avevo abbracciata cingendole da dietro il minuscolo corpo. Lei si era girato e mi aveva stampato un bacio sulla guancia.
«Sono felice» disse, mentre i miei occhi si riempirono d’un tratto di lacrime.
“Maledetta sigaretta” dissi tra me e me, anche se non stavo fumando. Così risposi al suo bacio e la mia bocca andò alla ricerca della sua e mi accorsi che sapeva di buono. Le nostre bocche restarono a lungo incollate l’una all’altra mentre la mia lingua giocava con la sua. Poi lei mise una mano sul mio torace e mi allontanò.
«Non voglio. Ho paura e poi… No, meglio di no.»
«Perché?»
«Perché tu non mi ami. Sono una bella ragazza anche se sono incinta e tu mi hai aiutato. Per pietà, forse perché sei un bravo ragazzo, ma non basta per chiamare amore il sentimento che provi. Un giorno, forse, quando l’amore, quello vero, prenderà il posto della pietà, forse. Io ti sono riconoscente, ma non so se ti amo davvero e ho paura… tanta.»
L’abbracciai con tutto il sentimento che il mio cuore mi dettava e la tenni abbracciata con la sua testa sul mio petto non so per quanto tempo sul divanetto della cucina, come due veri amanti. Le avrei voluto dire tutte le frasi che facevano capolino nella mia mente in quell’istante, ma tutte mi sembravano vuote e inutili e la tenni ancora abbracciata a me in silenzio. Le accarezzavo la testolina bionda e le parlavo del mare e delle spiagge di Messina, delle pietre che danno fastidio ai piedi mentre i bimbi costruiscono castelli con le pietre piatte levigate dal vento e dalle onde e le mamme sono belle come lei, la mia piccola ucraina. Inconsapevolmente la mia mano si spostò sulla sua pancia. Lei mise la sua piccola mano sulla mia e mi disse:
«Tu non lo sai, ma Lara ti manda i bacini e si muove piano piano per farti sentire che anche lei ti vuole bene come la sua mamma.»
Poi si divincolò e mi disse: «Ho voglia di uscire, non sono mai stata tanto tempo chiusa in casa e ho voglia di vedere gente. Andiamo al mare, portami sulla spiaggia. Hai visto il mare? È bellissimo, vorrei farlo vedere anche a Lara, usciamo? Dai fammi vedere il mare da vicino, ti prego.»
Era un bellissimo pomeriggio di una tarda primavera. Non faceva freddo, non fa mai freddo a Messina, e un timido sole faceva capolino tra una nuvola bianca e l’altra. Lei si vestì, si mise il mio profumo e mi sorrise come ormai faceva spesso, io l’abbracciai ancora e lei, ancora una volta, rispose al mio abbraccio, poi la presi per mano e come due innamorati, come due incoscienti, come due pazzi scendemmo piano le scale che ci portarono fino alla Panda parcheggiata come al solito a casaccio. Le aprii lo sportello e piano, con un filo di gas, mi incamminai mentre le guardavo il dolcissimo volto e aspiravo il profumo della sua pelle che sapeva di buono.

Continua…

Foto: r101.it


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