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Costume e SocietàLetteratura

Partenza per Ljubljana

La tela del ragno


Edil Merici

Di Francesco Cesare Strangio

Economicamente non aveva motivo di lamentarsi. La gentil donna di sua madre gli aveva fatto un lascito di quattro appartamenti nella città partenopea. La sua famiglia poteva vivere agiatamente dal ricavato dei terreni che aveva in Calabria e della rendita parassitaria degli alloggi in affitto al centro di Napoli.
Sin dalla prima infanzia, la caparbietà e il desiderio di volare alto come Icaro, lo avevano portato a distinguersi da tutti i coetanei, tale caratteristica le rese dinamicità e ampiezza di vedute. La sua struttura caratteriale lo portavano a vivere con difficoltà la vita del paese, che definiva “una discutibile e difficile realtà”, in cui l’uomo, inesorabilmente, declina verso l’inutilità dell’esistenza. L’insaziabile desiderio di costruire certezze lo faceva soffrire terribilmente.
In quel continuo stato di riflessione era urgente inventarsi la qualunque pur di evitare di essere sopraffatto dall’inedia e scivolare nell’oblio dell’abbandono, facendo sì che perdesse la forza di rialzarsi. Si sentiva come prigioniero nel castello kafkiano dell’impotenza, la cosa lo preoccupava non poco, poiché non riusciva a intravedere quella giusta luce capace di squarciare le tenebre dell’accidia, permettendogli di spiccare il volo verso l’alto in modo da superare le tenebrose nubi che opprimano la mente e lambire definitivamente l’intenso splendore della luce.
Quando cadeva in quella spirale, il ginepraio dei ricordi dell’infanzia lo imprigionava, fra i tanti dominava quello del padre perso durante la sua fanciullezza. Il genitore, durante la seconda guerra mondiale, era ufficiale di fanteria. Era sul finire dell’estate quando il padre fece ritorno a casa. Appena lo vide lo abbracciò con tutta la forza che aveva, ringraziando la divina provvidenza per averlo fatto ritornare sano e salvo dagli inferi della follia umana. Poi, per ironia di un oscuro, tiranno e ancor più ingiusto fato, perse la vita per un’ulcera allo stomaco.
Tutti i ricordi gli danzavano nella testa con la stessa intensità del ronzio di un alveare di api africane. Per attutire la sofferenza si alzava e accendeva la televisione, il cui brusio di voci attenuava le fiamme dei ricordi. Rivisitare il passato gli procurava un notevole tormento che trovava il suo apogeo tra la nona e l’undicesima ora della notte.
I suoi occhi si posarono sulla credenza, in un angolo, quasi dimenticata, una vecchia lampada di ottone che non era stata mai usata. gli venne l’idea di accenderla e poggiarla sulla finestra nella speranza d’addolcire la sinistra voce dei volatili della notte che, appollaiati sui tetti, scrutavano l’invisibile.
Alle prime luci del sole, scendeva dal letto più stanco di quando si era messo a dormire, con grande fatica si occupava dell’igiene del corpo e poi prendeva la via del bar di Mario che si trovava a pochi passi dal palazzo. I soliti amici lo precedevano di qualche minuto. Appena lo vedevano toccavano il tasto della politica. Solitamente, dopo aver esaurito gli argomenti, si finiva con il giocare a carte. Fu così che, ormai stanco di vedere le solite facce e di continuare con i ciclici ragionamenti, prese la decisione di fare ritorno a Salerno. Uscì dal bar e s’incamminò verso casa. Era come sempre immerso nei propri pensieri, si sentiva come il cane che, animato da richiami atavici, abbaiava durante la notte alla principale lanterna del cielo. A un tratto, una voce lo destò: era la moglie che lo incrociava. Aquilino si fermò e la guardò per un attimo con la tipica espressione di chi avesse preso una decisione.
La moglie, conoscendolo bene, lo fissò negli occhi e disse: «Cavaliere, qualunque decisione tu abbia preso, sappi che prima devo andare dalla parrucchiera, poi ne parliamo.»
«Vuol dire che ti aspetto a casa… fai in fretta che dobbiamo rientrare a Salerno» rispose Aquilino.
Partirono dal Paese poco dopo le dieci del mattino. Aquilino impresse all’automobile un’inconsueta andatura, sembrava come se fosse inseguito da una legione di demoni.

Era da poco passato mezzogiorno quando squillò il telefono. Dall’altra parte c’era Pavel.
Prontamente Aquilino chiese: «C’è qualche novità riguardo al petrolio?»
Pavel attese un istante e poi rispose: «Poco fa ha chiamato il contatto di Astana, che dice di avere del petrolio da piazzare.»
Mancavano solo i visti per poter partire per andare a negoziare il petrolio, cosa di cui Pavel si stava occupando presso l’ambasciata a Ljubljana.
«Bene!» ripose Aquilino. Poi continuò: «Presumo, a questo punto, che partiamo da Ljubljana?»
«Certamente!» rispose Pavel.
Il giorno dopo, dimostrando notevole capacità nel muoversi negli oscuri meandri della burocrazia, i visti erano pronti.
Era il dieci di novembre. In Slovenia incominciava a farsi sentire il primo freddo. L’aeroporto si trovava a pochi chilometri dall’hotel, ove di solito Aquilino pernottava prima di ogni partenza. L’auto si muoveva a velocità ridotta lungo una strada stretta, delimitata da grandi olmi intervallati da croci nere per ricordare ai passanti che ci fu un attimo del tempo che la morte fu lì ad attendere, paziente e fredda, il precipitare degli eventi.

Continua…

Foto: travelbox.com


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