Uomini e lupi nell’Aspromonte Greco: Il fago
Di Luisa Ranieri
Se, con la Storia del lupo Kola Francesco Perri ci ha trasportati in un mondo favolistico dai contorni spaziali e temporali sfumati perché tutta la vicenda è tesa a generare una morale (l’ impossibilità da parte dell’uomo di addomesticare il lupo), con Il fago di Paolo Fragomeni ci troviamo davanti a uno scenario diverso.
Siamo sempre immersi nella natura dell’ Aspromonte Greco, ma qui esso viene rappresentato in modo realistico con tanto di indicazioni geografiche e geologiche ma anche estremamente poetiche:
In fondo, verso Ovest, oltre le sagome tondeggianti di Monte Scorda e Monte Fistocchìo, si staglia la figura conica di Montalto. Nella valle antistante emergono, come leviatani dagli abissi del mare, le Grandi Pietre: Pètra Kappa, Pètra Castello, Pètra Longa, Pètra di Febo, e le Rocche di San Pietro. Poi tutto si immerge negli abissi dello Jonio e la propaggine di Capo Zeffirio fende le onde come la grande prua di una nave. Di fronte […] si estende l’immenso mare, a perdita d’occhio e l’immenso sistema di colline fino alla Roccella, dall’altra parte, la Timpa di Gerace, Monte Mutolo e le Serre ad Est […] Lo sguardo spazia sulle marine pianeggianti e distanti, dove crescono gli ulivi e i limoni e il profumo dei gelsomini che riempie l’anima, dove si estendono gli arenili bianchi come lenzuoli stesi ad asciugare, dove le fiumare scendono fragorose e zampillanti dalle montagne tagliando la lunga tela chiara delle sponde.
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Ed è proprio tra i dirupi montani, la vallate e le fiumare di tali zone che si svolge, da una parte, la vicenda dell’uomo, Salvo e, dall’altra, quella del lupo (Cola) detto dai pastori Lumbra (L’ombra) per l’abilità di nascondersi e di sfuggire alla caccia messa in atto contro di lui.
E tutto il racconto (che in verità è un insieme di storie a incastro: quella di Fragomeni bambino, quella del pastorello Bruno, quello di Santoro, il messaggero scelto dai pastori per convincere Salvo a cercare e uccidere Lumbra) gira intorno al Faggio del Lupo, “l’albero più grande che esiste, tanto grande che non si capisce dove ha fine. Da solo potrebbe formare un’ intera foresta” (pag. 7), una “immensa creatura” salvatasi addirittura, secondo i cunti dei vecchi, dal diluvio universale grazie ai suoi altissimi rami che, rivolti al cielo, si erano tenuti lontani dal marciume generato da quelli più bassi con le radici annegate sotto terra.
Ma a quale epoca si riferiscono gli avvenimenti narrati?
L’ autore afferma che nella narrazione “È tutto vero, dal primo all’ ultimo accadimento, dalla prima all’ ultima parola. Sono cose di tanto tempo fa, lassù, in montagna…” (pag. 9), ma con la postilla “me lo ha detto mio padre” inserisce tali certezze nell’aura indefinita dell’immaginario personale e collettivo.
Uomini e Lupi sono gli attori che muovono e portano avanti una vicenda che si snoda all’insegna di quella guerra infinita tra i vari elementi della natura che viene ben sintetizzata dal motto latino “Mors tua Vita mea”.
Essa era cominciata in Aspromonte (e non solo) quando i primi “avevano deciso che non poteva esserci posto per due specie cumandànti su quella montagna” (pag. 23).
E venne portata avanti da essi a suon di fucili a pallettoni, trappole, buche con pali acuminati dentro, bocconi avvelenati, e soprattutto con tagliole dalle “fauci di ferro” capaci di infliggere i supplizi più atroci all’animale tanto da portarlo spesso a troncarsi da solo l’arto intrappolato pur di sfuggire alla cattura, condannandosi poi a una morte ugualmente atroce per cancrena o infezioni varie.
Dall’altra parte i Lupi contrattaccavano spiando le mosse degli avversari, elaborando tattiche di accerchiamento e d’ assalto e azzannando e scannando le loro bestie per placare la fame insaziabile data loro dalla Natura.
Per lungo tempo gli uomini avevano vinto e debellato gli avversari finché una notte, dalle parti di Pètra Petràta, un ululato avvolse ogni casa, ogni capanna od ovile: i lupi erano tornati e “tutto presagiva un nuovo conflitto per la vita, l’eterna lotta per l’ esistenza” (pag. 45).
Del tutto immersi in tale lotta, i protagonisti sono due e ambedue portatori di un dramma: Salvo che, divenuto pazzo dopo la morte per malnutrizione del figlioletto, cerca la vendetta nei confronti dell’ingiustizia sociale di una terra immobile nei suoi privilegi e Lumbra che, persa la sua compagna, deve continuare a perpetrare la specie con alte lupe e, nella sua posizione di capo branco, difendere se stesso dagli attacchi sia degli uomini si delle nuove leve del branco, bramose di prendere il suo posto e la sua vita.
E l’atto finale si svolge intorno al famoso Faggio dello Zillastro, con un esito inaspettato che tende a togliere ogni valore al famoso detto latino di cui sopra
Un libro sulla Montagna, questo di Paolo Fragomeni che, intrecciando storie e abitudini dei suoi abitanti (uomini, animali e piante), giunge alla struggente conclusione che “siamo gocce dello stesso cielo destinate al mare, ogni creatura, senza differenza, in questa terra” (pag. 213).
E tornando alla cornice iniziale di tutta la storia, quella della descrizione del fago gigantesco, ce ne predice anche l’imminente morte dovuta a malattia interna perché, come dice Massaru Ciccio, «È addaccusì che il bosco continuerà a vivere, perché la morte di ogni èsseri viventi precede la nascita e la vita di un altro… La natura vive con saggezza e generosità più degli uomini e, quando serve muore, ma chì dicu, cangia» (Pagg. 285-286).
Foto di copertina: ideegreen.it