La compatibilità costituzionale delle misure di carattere non politico
Breve storia giuridica della confisca dei beni
Di Enzo Nobile e Francesco Donato Iacopino
Oltre ai dibatti dottrinari, anche la Consulta, di fronte al silenzio dell’Assemblea Costituente, già all’indomani dell’entrata in vigore delle Carta Fondamentale, si vide costretta a pronunciarsi sulla compatibilità costituzionale delle misure personali diverse da quelle a carattere politico, abolite ancor prima dell’entrata in vigore della Costituzione.
Il Giudice delle Leggi, infatti, chiamato a decidere sulla legittimità costituzionale dell’art. 157 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, emise la sentenza nº 2 del 1956 con la quale, oltre a dichiarare l’illegittimità costituzionale dei c. 1, 2, e 3 di detto articolo, indicò i parametri da seguire affinché tali misure godessero della copertura costituzionale, data loro dagli articoli 13 e 16 della Costituzione.
I parametri individuati e indicati dalla Consulta con tale sentenza furono due, ovvero:
- la necessità che le misure personali si poggino su elementi certi e non sul mero sospetto;
- la previsione dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti al fine di consentire sia il controllo giudiziario sia le garanzie difensive.
I requisiti di legittimità costituzionale delle misure personali, così individuati dalla Corte Costituzionale, divennero i pilastri della Legge 1.423 del 1956, emanata proprio al fine di colmare il vuoto legislativo che si era creato in seguito alla succitata sentenza.
Pertanto vi è da registrare il dato oggettivo che la Corte Costituzionale, laddove è stata investita direttamente di questioni afferenti la legittimità costituzionale delle misure personali, abbracciando la tesi della seconda delle su riportate correnti dottrinarie, si è pronunciata chiaramente per la loro compatibilità.
Tuttavia, tale Giudice delle Leggi, laddove non era chiamato a pronunciarsi direttamente sulla compatibilità delle misure di prevenzione personale ha, incidentalmente e indirettamente, rafforzato la tesi dell’altra corrente di pensiero giuridico.
Ci si riferisce, ad esempio, alla nota sentenza nº 364 del 1988, in cui la Corte, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 5 del Codice Penale, oltre a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma del CP nella parte in cui non prevede che l’ignoranza e l’errore inevitabili escludono la rimproverabilità del fatto (quindi la pena) poiché, secondo quanto previsto dall’art. 27, essa presuppone l’effettiva conoscibilità dell’illiceità penale del fatto,haspecificato la reale portata di tale art. della Costituzione.
Infatti, a ben guardare, la Consulta, nel pronunciare la sua sentenza, non si limita a riconoscere la rilevanza dell’errore e dell’ignoranza scusabili ma, andando oltre, da un lato, specifica che l’art. 27 della Costituzione, nell’affermare che la responsabilità penale è personale, non si limita a escludere la responsabilità per fatto altrui ma richiede, espressamente, che il condannato sia il reale autore del fatto previsto dalla legge come reato, dall’altro lato, opera per la prima volta il collegamento tra il primo e il terzo c. di detto articolo, affermando chenon avrebbe senso la rieducazione di chi, non essendo perlomeno in colpa rispetto al fatto, non ha alcun bisogno di essere rieducato.
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