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Costume e SocietàLetteratura

La storia di Brook

Наталина - Solo due mesi d’amore


GRF

Di Bruno Siciliano

⚠️ ATTENZIONE!
Scorri in fondo all’articolo per ascoltare questo capitolo del romanzo letto dalla viva voce di Bruno Siciliano!

Brook aveva messo a dormire la piccola e mi stava davanti come una scolaretta che, fatta una marachella, attende la sua punizione.
«Siediti – le dissi pacato. – Lo vuoi un bicchiere di vino?»
«No – disse, – Però vorrei un goccio di quello che hai bevuto tu. Ha un buon odore.»
«Siediti, adesso. Questo va sorseggiato, non lo devi bere come fai col vino. È un distillato, e si chiama Rum.»
Le versai una generosa razione di Don Papa in un bicchiere largo con dei cubetti di ghiaccio dentro.
«È un vero peccato» disse la zingara.
«Che cosa?» Risposi.
«Tutto quel ghiaccio annacquerà quel liquore così buono.»
Brook era fatta così. Capacissima di qualunque corbelleria, ma quando si trattava di gusto e di buon gusto, ti lasciava a bocca aperta.
«Vabbeh, adesso che lo so, la prossima volta te lo verso senza ghiaccio.»
«Sì, grazie. Ma che cosa mi volevi dire giovanotto?»
«Allora ricominciamo daccapo e con le presentazioni. Io mi chiamo Bruno, Bruno Greco, e tu?»
«Io mi chiamo Brook, Brook Beautiful.»
«Come? Ma non dire stupidaggini!»
«Vuoi vedere i miei documenti? Ce li ho!»
Rovistò un poco nella tasca della sua ampia gonna e mi diede un pezzo di carta unta che era già stata una carta d’identità.
Era vero! Lei si chiamava Brook Beautiful, era scritto là, nero su bianco, su di una carta d’identità del comune di Messina regolarmente firmata e timbrata.
Dovetti sedermi anch’io, accanto a quella che era diventata ormai la sua poltrona. Sorseggiai un altro goccio di rum e poi continuai: «Perché non mi racconti la tua storia?»
«Poi tu mi racconterai la tua» mi disse sorridendo e mettendo in mostra tutta la sua dentatura pressoché perfetta.
Io le versai ancora del rum nel bicchiere e lei si accomodò meglio sulla poltrona ma non bevve e cominciò a parlare:
«Sono nata in una roulotte nei Balcani. Non so chi fosse mia madre né tanto meno mio padre. Ero la figlia della tribù, specialmente quando mia madre mi abbandonò per fuggire con uno dei tanti suoi uomini. Nella tribù che era diventata la mia famiglia dovevo guadagnarmi giornalmente da vivere. Fasciata malamente da piccolissima e indecentemente vestita da grandicella mi insegnarono a interpretare la parte della figlia ora di una, ora di un’altra donna che mi portava con sé a chiedere l’elemosina nelle varie città che la nostra tribù toccava. Feci l’handicappata, la miracolata, l’orfana e tutte le parti che servivano per racimolare qualche moneta, poi mi  insegnarono ad essere ladra e borseggiatrice ma non bastò. Avevo sette anni quando, dopo una solenne sbornia, qualcuno abusò di me, non ne ricordo più neanche il volto, ma mi rimase nelle narici il puzzo di vino e di sudore e nell’animo il dolore lancinante e infinito di quella notte. Qualche anno dopo un amico con non molta fantasia ha creato per me dei documenti fasulli, affibbiandomi il nome che ancora è stampato sulla carta d’identità, poi sono stata venduta a un’altra tribù perché avevano bisogno di soldi e chi mi ha comprata ha preteso di farmi prostituire ed è stato allora che mi sono ribellata. Ho cacciato un coltello nella pancia dell’ultimo che ha voluto abusare di me e sono fuggita. Sono stata arrestata più volte per vagabondaggio e quando sono uscita di prigione ho ripreso a vagabondare perché non avevo dove andare e adesso eccomi qua.»
«Quanti anni hai, veramente?»
«Ventitré o venticinque, non so bene. Ma è così importante datare una vita come la mia? Sono almeno dieci anni che vivo ai margini di tutto.»
«Chi ti ha insegnato a leggere?»
«È stato un prete in una delle comunità a cui sono stata affidata e che s’era messo in testa di prendersi cura di me, ma quando mi sono accorta che le sue cure stavano andando ben oltre il suo mandato sono fuggita anche da quella comunità e sto fuggendo ancora.»
Aveva raccontato tutto con sguardo assente, come si fa dallo psicologo. Aveva scavato nel suo animo e ne aveva tirato fuori i ricordi con lentezza, quasi scegliendo le parole tra quelle meno dolorose. Poi tacque e restò con la testa bassa, scrutando un ghirigoro del tappeto quasi per indovinarne l’andamento e il suo significato.
Neanche io ebbi la forza di dire nulla, dunque ci guardammo quasi simultaneamente negli occhi e l’abbracciai come abbracciassi una sorella che aveva sofferto tanto e fosse ritornata a casa dopo tanto tempo.
Quando siamo chiusi nelle nostre case così sicure e confortevoli non pensiamo o non vogliamo neanche pensare che possano esistere storie così e vite e circostanze che sono contrarie a qualunque morale e a qualunque giustizia. Le versai un altro goccio di rum, senza ghiaccio, che lei non bevve per andare a vedere Lara, che intanto si era svegliata e aveva richiamato la nostra attenzione mettendosi a piangere disperata.
Tornò, dopo qualche momento, con la piccola in braccio che, intanto s’era calmata e si succhiava la manina guardandosi intorno come per riscoprire la casa in cui abitava da qualche settimana.
Non ebbi il coraggio di dire nulla a Brook, il racconto della sua vita mi aveva alquanto scosso. Era ormai sera, e uscii. L’aria era calda e calma e si sentivano intorno le promesse dell’estate. Delle ragazze ridevano nei loro vestitini leggeri e io pensai a Natalina. Non so se sarei stato di nuovo capace di innamorarmi, forse era ancora presto, ma nessuna destava in me l’interesse che aveva destato la piccola ucraina improvvisamente in una sola serata.
Avrei voluto fermarmi un poco in uno di quei bar illuminati di Piazza Cairoli, ma un senso immane di solitudine mi era piombato addosso all’improvviso. Natalina mi mancava un casino.

Continua…

Foto repubblica.it

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Gedac

Redazione

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