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Costume e Società

Verità e deontologia forense negli studi televisivi: deontologia e notorietà

Le riflessioni del Centro Studi


GRF

Di Giuseppe Oppedisano

Di recente ha fatto scalpore la notizia dell’irrogazione della sanzione disciplinare della sospensione dell’esercizio della professione forense a un avvocato che ha rilasciato interviste relative al contenuto dei processi patrocinati come difensore. Era comparso in trasmissioni televisive con sembianze alterate, interpretando ruoli in processi inventati, aveva ingaggiato un’attrice chiedendole di interpretare in tv il ruolo di naufraga di una nave, da lui assistita con successo, aveva proposto giudizi di classe chiaramente infondati, dopo averne magnificato sui giornali il sicuro positivo risultato, conseguendone la condanna alle spese di lite per i suoi assistiti e, in relazione agli stessi giudizi, aveva indicato come recapito telefonico quello dello studio di altri avvocati, i quali erano stati bersagliati da innumerevoli telefonate, il tutto all’evidente fine di procurarsi nuovi clienti. Scalpore ha poi suscitato la vicenda del difensore di una delle imputate coinvolte nel delitto di Avetrana, per il quale fu aperto un procedimento disciplinare dall’Ordine degli avvocati di Taranto, infastidito dalle loro continue apparizioni in televisione e sui giornali e dalla “troppa disinvoltura” nel cercare un cliente che garantisce maggiore visibilità. Il sospetto del Consiglio dell’Ordine era che fossero stati superati i limiti dei doveri deontologici sia in relazione all’inchiesta sia per l’atteggiamento troppo aggressivo tenuto durante le trasmissioni televisive. Ai tempi del delitto di Avetrana, in un’intervista al quotidiano La Stampa, Natale Fusaro, docente di criminologia all’Università La Sapienza, avvocato penalista ed esperto di questioni di deontologia, fece notare che “è vietato qualsiasi comportamento, elogio della propria persona e capacità professionale che dia un vantaggio a scapito degli altri. L’avvocato – concludeva Fusaro, – dovrebbe limitarsi a rendere informazioni sulla linea difensiva cercando di evidenziare quali siano le ragioni del proprio assistito”. Il tutto mantenendo “equilibrio e misura nel rilasciare interviste nel rispetto dei doveri di discrezione e riservatezza”. A giudizio di chi scrive le osservazioni di Fusaro sono corrette, perché l’avvocato, nei rapporti con gli organi di informazione e in ogni attività di comunicazione, non deve fornire notizie coperte dal segreto di indagine, spendere il nome dei propri clienti e assistiti, enfatizzare le proprie capacità professionali, sollecitare articoli o interviste, né convocare conferenze stampa se non strettamente necessarie per la difesa del proprio assistito. Nell’attuale momento storico pieno di sfide e di responsabilità, la consapevolezza del ruolo dell’avvocato passa anche attraverso il rispetto dei principi di verità e segretezza imposti dal nostro codice deontologico, strumento necessario per rilanciare la credibilità della professione. Chiaramente, nella cronaca giudiziaria, è auspicabile che vi sia una maggiore responsabilità anche da parte dei cronisti perché, se da un lato la nostra Costituzione tutela la libertà di espressione del pensiero, dall’altro è inderogabile il dovere di rispettare, nell’esercizio della funzione informativa, i diritti di dignità, onorabilità e riservatezza delle persone.
Pertanto, l’informazione sulle vicende giudiziarie deve sempre rispettare i diritti inviolabili della persona, rendere chiara la distinzione tra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra accusa e difesa, e adottare modalità espositive che consentano un’adeguata comprensione. Tutto ciò è necessario per evitare il rischio di un sovrapporsi della televisione alla funzione della giustizia attraverso la tecnica della spettacolarizzazione dei processi e la suggestione di teoremi giudiziari alternativi. In definitiva, a giudizio di chi scrive, deve evitarsi qualsiasi forma di spettacolarizzazione nella ricostruzione delle vicende giudiziarie per evitare che si crei una sorta di foro mediatico alternativo alla sede naturale del processo, dove non si svolge semplicemente un dibattito equilibrato tra le opposte tesi, ma si assiste a una sorta di rappresentazione paraprocessuale che giunge a volte perfino all’esame analitico e ricapitolativo del materiale probatorio, così da pervenire, con le forme proprie della comunicazione televisiva, a una sorta di convincimento pubblico sulla fondatezza o meno di una certa ipotesi accusatoria” (Autorità Garante per le Comunicazione, delibera 13/2008).
Deve evitarsi, insomma, che i media si sovrappongano alla funzione della giustizia e allora è compito dell’avvocato, invitato nei salotti televisivi o coinvolto nelle discussioni pubbliche sui social media, impedire che le rappresentazioni suggestive, dettate dalla logica del mercato, possano prevalere sull’obiettiva e comprovata informazione per evitare il “rischio di precostituire presso l’opinione pubblica un preciso giudizio sul caso concreto, basato su una verità virtuale che può influire, se non prevalere, sulla verità processuale” (delibera citata), con il rischio della degenerazione del dibattito pubblico in una sorta di gogna mediatica a scapito della presunzione di non colpevolezza dell’imputato, principio cardine del nostro ordinamento e di cui ogni avvocato dev’essere geloso custode.

Foto: davidemaggio.it

Estratto da L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri del 28/10/2022


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