Il gioco a perdere dell’amore e i problemi del sistema scuola
Pensieri, parole, opere… e opinioni
L’amore è un gioco a perdere. Passiamo la vita a inseguire un sentimento irrazionale che, in un modo o nell’altro, finisce sempre, irrimediabilmente, con il farci soffrire. La sua qualità più subdola è che si presenta in molte forme: quello espresso nei confronti di una famiglia dalla quale non ti senti apprezzato, quello nei confronti di un’attività cui non puoi dedicare il tempo che vorresti, o persino quello corrisposto nei confronti di un compagno o di un famigliare al quale, sulla distanza, sopravvivi.
Può anche assumere la forma randagia di una diffidente creatura a quattro zampe di cui, per due lunghi anni, ti impegni a costruire la fiducia lasciandogli qualcosa da mangiare sempre al solito posto e facendogli capire che ha trovato un porto sicuro, un luogo in cui stare tranquillo, salvo poi ritrovarlo sul ciglio della strada beffato dall’indifferenza di un’automobile che non può comprendere la portata dei sentimenti.
È a perdere anche l’amore nei confronti dei figli e non solo (o non tanto), perché, alla lunga, realizzi che hai sacrificato una buona fetta della tua vita solo per vederli fare le valigie e dare loro la libertà di compiere i tuoi stessi errori, ma perché anche prima può capitare che ti rendano protagonista degli atti più impensati.
È quanto accaduto a Emma Guiducci, mamma di Palermo il cui sfogo su TikTok contro la categoria degli insegnanti è diventato virale sulla rete e ripreso da praticamente qualunque media. Personalmente non esito a dichiarare di aver ritenuto tristi la modalità e i toni utilizzati dalla signora, che non ha risparmiato epiteti poco edificanti rivolti a tutta la categoria dei docenti per sottolineare la frustrazione sua e del proprio bambino. Eppure, analizzando a mente fredda le parole di Emma, pur comprendendo le ragioni di Professione insegnante, che valuta un’azione legale nei suoi confronti, ritengo sia doverosa una riflessione sul sistema scuola che, complice il troppo amore, induce a falli di reazione.
Grazie al mio mestiere mi capita di avere a che fare con studenti e insegnanti e non sono rari i confronti che celano differenze di vedute anche abissali sulla didattica negli istituti italiani. Per esperienza personale posso affermare che, quale che sia la classe frequentata dagli studenti, c’è sempre uno scarso interesse nei confronti delle materie studiate accollato frettolosamente a una non meglio identificata svogliatezza delle nuove generazioni. La verità, per l’idea che mi sono fatto, è che la lezione frontale sia superata e che, per le Generazioni Z e Alpha, cresciute (spesso per mancanze dei genitori) con il cellulare in mano, lo stimolo nei confronti delle materie di studio non passi più tra le righe di libri di testo nella migliore delle ipotesi redatti vent’anni fa. Tra le mura scolastiche vige ancora l’idea che lo smartphone sia uno scrigno di malvagità utile soltanto a essere sequestrato e a nessuno è ancora venuto in mente che, più che combatterlo, sarebbe il caso di allearsi a esso insegnando ai ragazzi a utilizzarlo per trovare tra le sue applicazioni anche quelle utili ad apprendere senza dover dipendere dagli altri, invece che consumare gigawatt di batteria davanti agli scomposti interventi della Guiducci di turno. Da questo punto di vista, la quasi totalità dei docenti dimostra di non avere inventiva o la capacità di trovare vie alternative alla mancanza di interesse dei discenti, velocemente bollata come un “problema loro”.
Non parliamo, poi, dei caso in cui gli studenti fanno malauguratamente parte di un’istituto che ricade in una zona notoriamente problematica (e alle nostre latitudini, ahimè, ce ne sono diversi), dove gli insegnanti si sentono autorizzati a dismettere i panni di educatore per indossare quelli di un Reichsführer delle SS, totalmente disinteressati a trasmettere conoscenze ai discenti che esulino da un rigido quanto assurdo concetto di disciplina. È a questo livello che le ore trascorse a scuola e il carico di compiti aumenta esponenzialmente per “togliere i giovani dalla strada”. Ma è davvero questa la soluzione? Io credo proprio di no, come non mi sogno di affermare che la colpa, allora, sia tutta degli insegnanti. Anche loro, povere gioie, per una malata forma d’amore nei confronti di una professione controversa, che li obbliga a indossare i panni di Agatha Trinciabue dopo aver sognato per anni di diventare John Keating, sono rimasti invischiati nel gioco perverso delle riforme scolastiche, che ci lasciano in eredità una scuola non adeguata a formare la classe dirigente del futuro. Obbligati a vivere nel precariato (discorso che si può allargare a tutti i componenti del personale scolastico) i docenti perdono rapidamente lo stimolo (touché) di trasmettere le loro conoscenze ai discenti, tirando a campare nella speranza che la loro ugola sopravviva un altro giorno e che lo stipendio arrivi per un altro mese. E la cosa drammatica è che tale sistema tarpa le ali anche ai dirigenti illuminati che guardano con interesse agli altri Paesi per provare a introdurre didattiche innovative, che si scontrano inevitabilmente con l’entusiasmo clinicamente morto del corpo docenti.
Non stupiamoci, allora, se nel 2023 il livello di dispersione scolastica sia ancora elevatissimo, se studenti brillanti si convincono di non essere abbastanza e se il futuro ci sembra nelle mani dei disinteressati. Questi ragazzi ci hanno già dimostrato di poter fare cose straordinarie se correttamente stimolati. Se vediamo che non reagiscono ai nostri stimoli, perché continuare a proporre loro sempre la solita solfa autoconvincendoci che il problema sia loro?
Guardiamo le cose da una prospettiva differente… amiamoli!
Foto di copertina: illibraio.it