Parafrasando una celebre canzone di Raf, mi capita spesso di domandarmi cosa resterà del periodo storico che stiamo vivendo, quale sia, insomma, l’eredità che stiamo lasciando ai nostri figli e cosa ricorderanno di noi i nostri nipoti. Mai come in queste settimane, probabilmente complice la questione della riduzione delle autonomie scolastiche che, come sottolineavo la scorsa settimana, cela il problema ben più pressante dello spopolamento di questo territorio, ho sviluppato una visione generalmente pessimistica del prossimo futuro, in cui alla desertificazione morale della società sembra sempre più certo se ne aggiungerà anche una materiale.
Decenni di propaganda politica sulla tutela del cittadino, dei suoi diritti civili e, non da ultimo, dell’italianità, sembrano destinati a scomparire dietro lo 0 demografico di cui il mondo politico (non solo nazionale) sembra sempre più intenzionato a disinteressarsi.
Il populismo di frontiera sarà destinato a vincere le elezioni che gli consentiranno di governare sulle ceneri di un mondo alla deriva, in cui anche la gestione delle crisi internazionali sembra essere affidata al caso (come del resto già dimostrano il protrarsi della guerra in Ucraina di cui tutti ormai paiono essersi dimenticati, il terremoto in Marocco e l’alluvione in Libia). Stiamo già vivendo un affanno da giorni dell’Apocalisse in grado di mettere in evidenza non più la teorica insostenibilità del modello occidentale, ma il suo decesso clinico, l’avvenuto superamento del famigerato punto di non ritorno che, da questo momento in poi, ci permetterà di tirare a campare fino a quando avremo nelle braccia abbastanza forza da tenerci a galla.
A rendere ancora più grave il problema il fatto che questo senso di sconfitta che mi permea da qualche giorno a questa parte non sia un pessimismo leopardiano che mi colpisce in una fase complicata della mia esistenza, ma pare invece un sentimento che si diffonde in maniera pandemica tra gli umori di un’intera generazione ormai consapevole di aver ereditato un mondo talmente marcio da non avere la possibilità di salvare un bel niente.
I Baby boomers e la Generazione X hanno manipolato la realtà sociale in così tanto da aver di fatto cancellato dai Millennials la volontà di costruire un mondo migliore, basato sulla sostenibilità e sulla fratellanza cantante in We Are the World di USA for Africa sulle cui note ci hanno fatto crescere. Dopo una vita passata a pensare che avremmo potuto cambiare il mondo, oggi che siamo diventati la classe dirigente e abbiamo la consapevolezza di cosa sia necessario fare per imprimere una svolta a gomito alla storia, non abbiamo più la forza di farlo o cerchiamo degli espedienti per creare velocemente delle piccole sacche di resistenza che non hanno la forza di superare i confini locali. Non ci resta, dunque, che scaricare anzitempo la palla sui Centennials esattamente come i nostri genitori hanno fatto con noi o augurarci che la Generazione Alpha, che sta crescendo a pane a smartphone e che per questo viene definita anche Screenagers, osservando il mondo attraverso il filtro degli schermi LCD sia messa brutalmente di fronte alla crudezza della realtà fin dalla più tenera età, prendendosi così il tempo di elaborare delle soluzioni di uscita dalla crisi.
La domanda è: nell’attesa che loro crescano, quanto ancora avremo rovinato questa realtà sociale? E chi ci dice la deriva scolastica, politica, educativa… non abbia nel frattempo prodotto nuove forme di devianza?
La palla, in conclusione, passa nuovamente alla politica. Per parafrasare Cesare Pavese, un Europa ci vuole, un sistema, cioè, che abbia la consapevolezza di quali siano i problemi e di come vadano risolti, che sappia prendere decisioni drastiche (per citare Che Guevara) “senza perdere la tenerezza” e, soprattutto, dimostrando quell’amore per il prossimo che ci riporti a un sistema globalizzato, sostenibile e di mutuo soccorso.
Semplice, no?
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