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«Giuseppe Iannì morì in divisa, ma lo Stato sembra pensare il contrario»

«Adesso basta, dopo tutto questo tempo la nostra pazienza è finita». Sono le parole di condanna espresse da Caterina Iannì, sorella di Giuseppe, parà reggino deceduto nella strage della Meloria, il disastro aereo accaduto il 9 novembre 1971 al largo di Livorno, dopo che lo Stato ha chiesto la restituzione del vitalizio riconosciuto dopo la tragedia, che vide un Hercules della Royal Air Force — con a bordo 46 paracadutisti italiani e 6 militari britannici — inabissarsi al largo della costa Livornese, in una zona chiamata Secche della Meloria. Era diretto in Sardegna per la Cold Stream, un’esercitazione militare della Nato. Morirono tutti, alcuni furono ritrovati dopo mesi, altri mai; per le nostre Forze Armate quello è rimasto il più grave incidente dalla fine della Seconda guerra mondiale.
«Siamo stanche di vedere il nome di nostro fratello messo da parte e trattato come la pecora nera del gruppo – dichiara Caterina, che parla anche a nome delle sorelle Giusi e Carmela, ai colleghi del Corriere della Sera. – Giuseppe era nella missione come tutti gli altri, è morto come tutti gli altri e portava la divisa da paracadutista come tutti gli altri. Non volete considerarlo vittima del dovere come i suoi compagni di sciagura? Rivolete i soldi che ci avete dato? Benissimo. Allora che il suo nome venga rimosso da qualsiasi monumento o stele alla memoria e non venga mai più menzionato nelle manifestazioni di ricorrenza. E già che ci siamo, considerata la disparità di trattamento che ci avete riservato, sappiate che riconsegneremo allo Stato anche il Tricolore che avvolge il feretro di Giuseppe da 50 anni. Faremo riaprire la tomba e, anche se fosse a brandelli, lo restituiremo».
Della questione si stanno occupendo gli avvocati Giuseppe Guerrasio e Giosuè Domenico Megna che hanno riassunto la storia giudiziaria della famiglia spedendone una copia al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, alla regina Elisabetta, al Papa, a Premier Mario Draghi, ai presidenti di Camera e Senato, ai ministeri degli Esteri, Giustizia, Difesa e Interno, alla prefettura di Livorno e al 187º Reggimento paracadutisti Folgore.
Se il messaggio sia stato accolto lo si saprà prestissimo, perché la prossima commemorazione (a 50 anni dall’evento) è martedì prossimo.
«Siamo offese, oltre che arrabbiate – prosegue Caterina, che all’epoca aveva 13 anni. – Perché ci avevano accordato un vitalizio, ma nel 2018 la Cassazione ha deciso che dobbiamo restituire tutto poiché secondo loro non risulta che Giuseppe fosse nostro convivente. Un’assurdità e una falsità. Era un errore evidente, il certificato che provava il contrario non è mai stato considerato, ma non c’è stato modo di rimediare. Abbiamo provato a insistere con ogni via giuridica possibile ma non è valso a niente e ora dovremo ridare indietro quei soldi, circa 200 mila euro per ciascuna di noi. Come faremo? E poi c’è un’altra cosa che ci ferisce: tutti gli altri — tutti — sono inseriti nell’elenco delle vittime del dovere, Giuseppe soltanto risulta vittima del dovere equiparata. Ma scherziamo? Aveva vent’anni ed è morto su quel maledettissimo aereo. Che vuol dire quel vittima equiparata? Per noi è uno schiaffo alla sua memoria.»
A rendere ancora più grottesca la vicenda, il fatto che le cause civili dei paracadutisti morti nelle Secche della Meloria, portate avanti singolarmente, ciascuna nella città d’origine della vittima, sono finite in modo quantomai diverso l’una dall’altra. Ma in nessun caso, salvo che per i Iannì, l’avvocatura dello Stato è ricorsa in Cassazione e chiunque abbia avviato il procedimento, tranne le sorelle Iannì, ha avuto i riconoscimenti economici dovuti.

Fonte: corriere.it

Redazione

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