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Costume e SocietàLetteratura

L’alleanza tra “padre” e “paese padrone”

Di Luisa Ranieri

Ne Il selvaggio di Santa Venere, capolavoro assoluto di Saverio Strati, lo scrittore ci presenta un racconto a tre voci talmente interrelate tra loro da far pensare a un’originale variazione del tradizionale flusso di coscienza.
A tenere il filo del discorso è Dominic che introduce, senza virgolette, i discorsi e i ricordi del nonno, Don Mico Arcàdi, e del padre Leo, sovrapponendoli alle sue riflessioni o, meglio, ampliando queste ultime attraverso le più varie modulazioni.
“È da pensare che si stava (Dominic col padre) per ore e giorni e settimane fianco a fianco a lavorare (la terra) e a comunicarci sospiri, pensieri e ansie” e “sotto sotto, a rifletterci bene, io non ero uno, ma tre: nonno, padre e figlio, ero.”
Si tratta, dunque, del racconto di tre generazioni, di cui le prime due strettamente legate alla campagna calabrese e la terza che, pur amandola intensamente, se ne allontana per sempre perché di essa rifiuta l’organizzazione sociale, ingiusta con i più poveri, la prepotenza delle ‘ndrine, quasi sempre colluse con le classi più forti, e l’immobilismo che la paralizza in ogni settore:

Ma io ormai ho salutato quella terra. Lavoro e vivo altrove, deludendo anche in questo sia il nonno che mio padre.

… non me la sento più di adattarmi a quel vecchio ambiente impastato di regole fisse, d’invidia, di gelosia acuta e distruttiva, di riguardi, di referenze, di paura dei mafiosi e di tant’altre cose intollerabili e schifose, assurde, fuori tempo.

La copertina de Il Selvaggio di Santa Venere nell’edizione Rubbettino del 2020

Anche Don Mico e Leo si mostrano fortemente insofferenti nei confronti di questi aspetti della loro terra, risultato dell’ignoranza in cui le classi subalterne sono sempre state tenute da quelle dominanti e rimpiangono costantemente il fatto di non aver potuto e, nel caso di Leo, voluto studiare.
Direi che sono proprio questi argomenti a costituire l’asse portante del libro: l’importanza della Scuola e il valore dell’Istruzione, che diventa insieme rimpianto per non aver saputo cogliere l’occasione e accusa per chi questa occasione l’ha fatta perdere.
Il nonno Don Mico ha frequentato fino alla terza elementare, il figlio Leo fino alla quinta e il nipote Dominc fino alla terza media. Ma hanno poi trovato delle piccole/grandi compensazioni: i primi due sugli scenari insanguinati della prima e seconda guerra mondiale, attraverso il servizio di leva e poi militare, scuola grandiosa e vera fucina di confronto e di crescita tra giovani prelevati a forza dai loro paesi e senza alcuna consapevolezza del perché e per chi erano chiamati a combattere e anche a morire, e nelle lotte sindacali operaie dell’Emilia degli anni ‘60 il terzo. E le loro guide nell’acquisizione di un linguaggio non solo verbale ma anche metaforico sono state, il Signor Capitano per Don Mico, il Signor Tenente per Leo e i compagni di lotta operaia per Dominic.
Ma niente può sostituire il valore della Scuola e la crescita umana e culturale insieme ai coetanei e, sotto la guida di maestri davvero interessati alla crescita dei loro alunni, come dimostra l’esperienza di Leo, atrocemente bullizzato dai suoi compagni di classe sotto gli occhi compiacenti e anche fomentatori di un maestro fascista (e segretario politico) interessato più alle scenografiche parate del periodo che al benessere fisico e psicologico dei propri allievi.
E, purtroppo, poiché il giudizio di costui (“massaro, la testa di vostro figlio è nata per fare pidocchi. Fatelo zappare. Al Duce serve di più e meglio un contadino che un maestro somaro”) viene vissuto da Don Mico come una vergogna davanti alla comunità, l’alleanza tra padre e paese padrone si trasforma in una condanna definitiva per il ragazzo Leo, costretto a diventare selvaggio nella solitudine estrema in cui il padre lo confina per anni e anni nelle proprietà di famiglia a Santa Venere e che “per non essere sfottuto e ritenuto animale… si aggrega alla ‘ndrina. Per essere protetto e per sentirsi uomo, dato che gli dicevano: tu sei omo” e a prestarsi e, addirittura, diventare collaboratore, sia pure inconsapevole, di un atroce omicidio. Alla scoperta di essere stato usato per un fine così orrendo, Leo prova orrore di sé e decide di uscire per sempre da quella congrega di carnizzari che si credono omini solo perché sanno ammazzare il prossimo, tradire ed imporre con violenza a tutti la loro legge sanguinaria.
Si affida allora all’unico modo per affrancarvisi: salire sul convoglio militare che lo porterà al servizio di leva e poi al fronte dove scoprirà, attraverso la benevolenza dei commilitoni che lo rispettano e lo trattano da pari a pari, di non esser un selvaggio ma di essere stato costretto a diventarlo a opera di un padre confuso e umiliato che ottusamente aveva obbedito alle regole di un lucido e spietato paese padrone.

Foto: restoalsud.it

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