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Foibe: io non scordo

È il 10 febbraio e, così come da qualche anno a questa parte (17 per la precisione, essendo stata questa data istituita con legge del 30 marzo 2004, nº 92) ci si ritrova ufficialmente a commemorare il Giorno del ricordo, cioè la giornata volta a mantenere viva la memoria di tutti quegli italiani rei di non aver voluto tradire le proprie radici tricolori.
Per capire meglio di cosa stiamo parlando occorre fare un passo indietro: siamo nel 1943, precisamente nei caotici giorni successivi all’8 settembre (data del tradimento o dell’armistizio, dipende dalle parti). Sono giorni di guerra civile ed è in questo contesto che si collocano i fatti accaduti al confine orientale italiano (Istria, Fiume e Dalmazia), cioè quelli immediatamente a ridosso di quei territori che diventeranno successivamente la Jugoslavia. Il governo di quei territori è rappresentato dai partigiani comunisti del maresciallo Tito che scientemente iniziano a perseguire una linea politica ed economica volta a costringere gli abitanti di nazionalità e tradizioni italiane ad abbandonare i territori a favore di quelli di etnia slava. Per accelerare il processo, e convincere anche i più ritrosi, si dà inizio a una pulizia etnica mediante omicidi di massa.
Le uccisioni avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati l’uno all’altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco, trapassando, a raffiche di mitra, non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili.
Ufficialmente il momento in cui fu deciso il destino degli abitanti e dei territori istriani, dalmati e fiumani coincise con il trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, nell’ambito del quale i “vincitori” scrissero un’ulteriore capitolo del gran libro della storia e in cui fu stabilito che l’Italia dovesse consegnare alla Jugoslavia numerose città e borghi a maggioranza italiana rinunciando per sempre a Zara, alla Dalmazia, alle isole del Quarnaro, a Fiume, all’Istria e a parte della provincia di Gorizia.
Il trattato di pace di Parigi, di fatto, regalò alla Jugoslavia il diritto di confiscare tutti i beni dei cittadini italiani con l’accordo che sarebbero poi stati indennizzati dal governo di Roma e, di fatto, costrinse migliaia di persone, 350mila secondo stime abbastanza ottimistiche, a un esodo forzato non solo verso l’Italia, ma anche nelle lontane terre d’America e Australia. Scappavano dal terrore, non avevano nulla, erano bocche da sfamare che non trovarono nella Penisola una grande accoglienza: la Sinistra li ignorò, non suscitava solidarietà chi fuggiva dalla Jugoslavia, da un Paese comunista alleato dell’URSS, in cui si era realizzato il sogno del socialismo reale, mentre la classe dirigente democristiana considerava i profughi “cittadini di serie B” e per questo non approfondì la tragedia delle foibe. Emblematico e rappresentativo è l’episodio di uno dei più grossi convogli ferroviari che trasportavano gli esuli, che vennero dileggiati e scherniti nelle stazioni in cui fece tappa.
Per cinquant’anni il silenzio della storia e della classe politica, non tutta per la verità, ha avvolto la vicenda degli italiani uccisi nelle foibe e di quelli costretti all’esilio. È una ferita ancora aperta perché ignorata per molto, troppo tempo e nessun trattato potrà cambiare la sostanza.
Non è per niente strano se in Istria, a Fiume e in Dalmazia, anche le pietre parlano italiano.

Associazione Culturale Locri Patria Nostra

Redazione

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