Al camposanto
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Di Luisa Ranieri
Era il 2 di Novembre del 1976 e Mara era tornata per ingentilire con dei fiori freschi la tomba di suo padre, morto di recente e trasportato, secondo le sue ultime volontà, da Bologna, la terra dell’approdo, a Locri, la terra dell’origine, in cerca di quella serena pace che nella sua pur breve vita non aveva mai trovato.
Dopo aver lustrato il marmo, acceso i lumini e messo i fiori nei vasetti, Mara se ne stava appoggiata sulla sua tomba a guardarsi svagatamente intorno.
Il tramonto era di una tenerezza che faceva quasi male al cuore, col suo malinconico rosa che sfumava contro la rocca viola di Gerace, là in fondo, e le persone, dopo tutto quel gran da fare a pulire e ornare i marmi, si chiedevano forse a che cosa fosse servito tutto quel lavoro, visto che i morti restavano morti e tutto era identico a prima.
O forse era solo Mara che la pensava in quel modo e proiettava il suo pensiero sugli altri, immalinconita dal fatto che la tomba del suo genitore era davvero solitaria, con il resto della famiglia sparsa per tutta Italia e anche fuori e impossibilitata a venire a rendere gli onori funebri al congiunto.
Quando, all’improvviso:
«Ah, Vincenzo, come sei passato presto, quanto presto te ne sei andato da questo mondo» si mise a gridare in dialetto proprio sulla tomba di suo padre una donna tutta vestita di nero e con i capelli raccolti a piccole trecce intorno al capo.
Era sulla cinquantina, ma sembrava molto più vecchia, una della montagna, a giudicare dall’abbigliamento modesto e nello stesso tempo austero.
«Ah, che vita difficile hai incontrato al Nord, e quanto giovanetto ti ha colpito la malattia.»
Mara trasecolava: non aveva mai conosciuto quella donna, e ora che la vedeva cominciare anche a graffiarsi le guance per il gran dolore, ne aveva come paura.
«Signora – le chiese, – ma lei conosceva mio padre?»
Nessuna risposta e, dall’altra parte, copiose lacrime a rigare il volto di quella sconosciuta.
“Che mio Padre avesse una seconda vita a me, a noi ignota?” cominciava a pensare Mara, che sapeva come nell’esistenza delle persone, nel corso degli anni, si possono andare a intrecciare i fili di vite diverse e divergenti.
“Certo, doveva essere stato un affetto intenso quello che lo aveva legato a questa donna, anche se all’apparenza molto lontana dalla sua condizione e cultura” continuava a pensare stupita davanti a tante lacrime e disperazione.
Ma ormai si era fatto tardi, al camposanto erano rimasti in pochi, e Mara non voleva certo correre il rischio di restarci chiusa dentro.
«Su, signora, si alzi. Andiamo» disse alla donna che, asciugandosi le lacrime, la guardava in modo strano, intenso e insistente.
Ed ecco, una luce scoppiò all’improvviso nella testa di Mara: “Una prefica,” ecco cosa era la Signora in nero e la ricompensa era il motivo del suo falso e insieme vero pianto e dolore.
E, mentre le faceva scivolare nelle mani alcune banconote, continuò a pensare “È proprio così: siamo in terra greca e questa donna, scesa da chissà quale interno, custodisce in sé un uso arcaico. Sarà una delle ultime a farlo, perché in questo mondo che va tanto veloce, tra pochi anni, non resterà neppure il ricordo di quel lontano culto dei morti.”
E così è stato, perché nei suoi numerosi ritorni al camposanto di Locri, di prefiche, Mara non ne ha più vista neppure una.
Tratto da In forma di parole
Franco Pancallo Editore, 2009