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Attualità

La contrapposizione Stato-Mafia e le illusioni di una terra di confine

Di Rosario Rocca

Ogni terra di confine illude. È come se la bellezza, ovunque esposta alle percezioni dei sensi, affermasse la sua superiorità alle cose del mondo e dei giorni, derubricando il resto della corsa quotidiana a mera condizione di subalternità rispetto alle dinamiche cosmiche. Finanche il degrado che il tempo si lascia indietro sul creato sembra destinato a una dimensione provvisoria. Niente, osservando frammenti di vita in movimento che si concedono al mio poggiolo, sembra essere fatto per sempre. Solo il colle, come lo spicchio di mare appena dietro e la luna che ogni sera vi torna a specchiarsi, mi pare immutato ed eterno. Bellezza eterna. Questa è terra per sognatori, ideali universali e poeti solitari. O, almeno, così sarebbe senza le ingiurie del tempo e degli uomini. Perché dopo il sogno viene il risveglio e qui da noi, in Calabria, non è concesso di sognare a occhi aperti. E, men che meno, di guardare con gli occhi aperti. Per quieto vivere, si fa per dire, non vediamo le contraddizioni che attraversano e condizionano le nostre vite. Ci piace pensare che la nostra campana di vetro sarà per sempre un rifugio sicuro. Ricordo che quando mi affacciai per la prima volta alla politica mi fu chiesto di scrivere un articolo per il giornale parrocchiale del mio paese. Anche se per motivi di opportunità dovevo rimanere nei ranghi del politicamente corretto, cercai di tracciare sopra le righe quello che voleva essere un quasi manifesto politico. Decisi allora di affrontare il tema della zona grigia e titolai quel breve scritto Cultura mafiosa e coscienza democratica. Avevo dentro una grande forza e il vantaggio dell’incoscienza. Credevo che gravitare in una sorta di terra di mezzo non fosse altro che un’abitudine diffusa ma superabile grazie all’emancipazione e all’impegno politico; che gli insegnamenti di Don Milani e Peppino Impastato, prima o poi, avrebbero attecchito anche in questa terra di isolamento e di mammasantissima. Mi ero persuaso che era il momento della mia generazione. La storia, da lì a breve, ci avrebbe decretati vinti. Come quelli di venti e di trent’anni prima. È di qualche settimana fa la notizia di alti funzionari dell’Amministrazione Scolastica colpevoli di aver dato vita a un circuito di illecito arricchimento tramite un copioso traffico di diplomi falsi. La corruzione ha ormai travalicato ogni ambito della cosa pubblica: non si sente altro che di colletti bianchi, giudici, funzionari dello Stato, faccendieri multitasking implicati in vicende di corruzione. Tanti, troppi. Non avevo tenuto conto, forse perché ancora fresco di pulsioni ideologiche, che un contesto così cronicamente malato di corruzione avrebbe finito per rafforzare irrimediabilmente la ‘ndrangheta. E il corso di degenerazione ha progressivamente annientato anche gli anticorpi che fino a qualche tempo addietro sembravano solidamente radicati nella società. Non ho mai condiviso scuole di pensiero che, direttamente o indirettamente, tendono a stigmatizzare il lavoro della magistratura calabrese; anzi, ritengo che nell’ambito della repressione della criminalità si siano fatti passi in avanti. Ma la storia ci ha dimostrato che il terreno di lotta non è quello, o quantomeno non è l’unico. La coercizione non tocca il livello culturale. Cultura mafiosa, appunto. La criminalizzazione sommaria del nostro territorio, estremizzata negli ultimi tempi con il concorso di certa magistratura, delle classi dirigenti della politica e del potere mediatico, ha prodotto effetti devastanti. E il più eclatante è che la zona grigia, prima appannaggio di strati borghesi compiacenti, si è ampliata ulteriormente occupando ampi segmenti sociali non più riconoscibili. Una zona neutra che oggi accoglie larga parte dei cittadini calabresi. Scioglimenti di consigli comunali, interdittive antimafia a danno di imprese e strumenti simili, a volte disposti sulla sola base del sospetto o di qualche legame parentale, si sono rivelati provvedimenti inefficaci che hanno notevolmente accentuato la percezione di sfiducia nei confronti delle istituzioni dello Stato. A maggior ragione in una terra dove, con complicità gravi dello Stato, si è costruito un porto franco dalle garanzie costituzionali. La crisi pandemica attuale, oltre ai morti lasciati sul campo, ha contribuito a far emergere le già note negazioni di diritti fondamentali dei cittadini calabresi: dalla salute, all’istruzione; dal lavoro, ai servizi socio-assistenziali. L’impegno politico sul campo mi ha permesso di conoscere la mia terra e la mia gente. Ricordo che una volta venne a trovarmi al comune una ragazza e, con le lacrime agli occhi, mi chiese di aiutarla perché avrebbe voluto crescere il figlio che aveva in grembo in una casa dignitosa. Le lungaggini burocratiche del caso non mi avrebbero consentito di soddisfare un bisogno reale in tempi brevi. E così decisi di forzare la legalità per un senso di giustizia. Quando la accompagnai, insieme alla sua famiglia, in uno degli alloggi liberi, più che dai suoi ringraziamenti mi sentii ripagato dalla sua felicità e dal senso di speranza che albergava nei suoi occhi. Ho imparato bene che tanti, i più, che per sfiducia o per timore non osano fare una scelta di campo, nutrono ancora una speranza remota di cambiamento. È da lì che bisogna ripensare al dopo, perché malgrado tutto un dopo verrà.

Foto: Nardi

Redazione

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