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Costume e SocietàLetteratura

La migliore pizza del mondo

Stasi XXII - Francesco Rossi si concede una pausa in un locale particolarissimo, quindi riprende il suo frenetico lavoro di trattave, questa volta al cospetto del conte Balsamo.

Di Francesco Cesare Strangio

All’interno della pizzeria, Francesco Rossi venne fatto accomodare dall’uomo che si era presentato come il proprietario del locale, che iniziò il suo racconto al fine di svelargli l’arcano della dicitura apposta all’ingresso.
L’uomo volle subito rasserenarlo, garantendogli che la scritta: “In questo locale si mangia la migliore pizza del mondo, parole del Re d’Italia” non era frutto di una falsa pubblicità per attirare i curiosi.
Il suo racconto andò ai primi anni del ‘900, quando il Re Vittorio Emanuele III di Savoia, avendo la moglie, la Regina Elena, il desiderio di mangiare una pizza, chiese se ci fosse una pizzeria all’altezza della consorte.
Essendo il cugino del proprietario della pizzeria un funzionario di Stato, questi pensò bene di indicargli il locale del suo parente; conscio che avrebbe fatto bella figura e che un tale evento avrebbe portato acqua al mulino del proprio cugino.
Il racconto del proprietario della pizzeria soddisfò la curiosità dell’imprenditore.
Nell’ordinare la pizza, chiese al cameriere di servirgliene una con gli stessi ingredienti di quella che aveva mangiato la regina.
Dall’aspetto si presentava bene, restava da verificare la bontà del sapore.
La mangiò lentamente, accompagnandola con un quarto di vino rosso. Rossi dovette ammettere che quanto riportato nella targa di bronzo rispondeva a verità.
Lo sguardo di Rossi si posò sull’orologio e si accorse che il tempo si stava beffando di lui: la lancetta minore era sulla ventiduesima ora e la maggiore sul trentesimo minuto.
Era tardi, il giorno dopo lo attendeva un passaggio importante.
A passo svelto si diresse in direzione dell’albergo.
Quando, da una stretta via delimitata da alte case apparvero due giovani dal fare sospetto, capì subito quali erano le loro intenzioni: volevano derubarlo.
Prontamente Rossi si scansò, dalla tasca estrasse un coltello a scatto e imprecando in dialetto calabrese, si mosse verso di loro.
Uno dei due giovani esclamò: «È un calabrese, andiamo via prima che ci sbudelli!»
A gambe levate scomparvero nella via da dove erano sbucati.
Rossi rimase fermo per un attimo a osservare quello stretto budello di strada, ripiegò con la mano sinistra la lama dell’arma fino a far scattare il meccanismo di chiusura per poi riprendere il cammino, con andatura più lenta.
I suoi occhi, vigili come quelli di un felino, scrutavano i dintorni e, nel frattempo, teneva la mano dentro la tasca dei pantaloni in cui aveva rimesso l’arnese.
Per tutto il resto del percorso non si presentarono altri imprevisti.
Come sempre, la mattina si alzò di buon’ora. Scese nella hall: dietro al bancone della caffetteria vi era una giovane ragazza dagli occhi azzurri, una chioma bionda con una treccia che terminava poco sopra la coccigea. Avvolta da una livrea blu, la giovane si muoveva con spensierata agilità, le labbra carnose proiettavano un sorriso accattivante.
Vedendo Rossi, la ragazza chiese: «Signore, cosa gradisce?»
Il profumo del caffè espresso era intenso e invitante, tanto che non esitò un solo istante nel chiedere: «Un caffè, per favore! Mi raccomando che sia ristretto».
Tempo un attimo e la ragazza mise sul piano del bancone la tazzina con appoggiato il cucchiaino e vi accostò la zuccheriera in porcellana.
Rossi sorseggiò lentamente il liquido marrone per poi congratularsi della bontà del caffè.
Erano le nove del mattino, l’impegno che aveva non gli permetteva di rimanere a continuare a sublimare la giovane donna.
Uscì seguendo le indicazioni di Don Ciccio, puntualmente arrivò al palazzo del Conte, trovò a riceverlo un maggiordomo che dall’aspetto si capiva che ne aveva fatti di anni al servizio in quel casato. Lo fece attendere in un ampio ingresso decorato con affreschi che riportavano scene di caccia e i paesaggi lasciavano intravedere la Sicilia. Colonne di marmo con capitelli corinzi reggevano un architrave su cui poggiava un soffitto riccamente decorato. Quell’ingresso palesava la ricchezza del casato dei Balsamo.
Dopo circa cinque minuti, il tempo per apprezzare sommariamente l’arte che racchiudeva quell’ingresso, arrivò il maggiordomo e gli disse, con voce sommessa: «Potete accomodarvi, il Conte vi attende».
Entrando, si presentò alla vista uno spettacolo di rara bellezza: trovò il proseguimento e la compiutezza dell’ingresso. I decori, le vetrate e gli arredi palesavano l’inattaccabilità del tempo del benessere di quella nobile famiglia.
Il Conte era un uomo esile dall’aspetto gracile e dal fare gentile; la cosa non lo stupì, era come se lo aspettava.
Il Conte chiese all’interlocutore come andavano le cose nell’esportazione.
Rossi illustrò le nuove frontiere che avevano superato, aggiungendo di aver fatto la prima consegna di profumi oltre la cortina di ferro.
Con l’occasione tirò fuori dalla borsa un pacchetto ben confezionato in cui c’erano delle boccette di profumo prodotti dalla Naxos.
Il Conte dimostrò la sua gratitudine per il pensiero; tant’è che lo invitò a restare a pranzo.
Rossi, con fare garbato, si districò dell’invito, dicendo: «Ho degli impegni a Roma nel primo pomeriggio».
Poi aggiunse: «Comunque, alla prossima occasione sarò felice e onorato di rimanere a pranzo con voi».

Foto: berberepizza.it

Redazione

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