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Attualità

Il gioco del calamaro e il passo del gambero

Pensieri, parole, opere… e opinioni

Mi ha lasciato perplesso l’ondata di indignazione che si è riversata su Squid Game, serie televisiva coreana distribuita in tutto il mondo sulla piattaforma streaming Netflix. La rabbia e lo sdegno contro il prodotto sono stati espressi in varie forme e su diversi canali, arrivando addirittura a inneggiare a una “censura come una volta” che mi ha dato l’ennesima prova di quanto, per certi cittadini, alcuni diritti, faticosamente conquistati dai nostri genitori o dai nostri nonni, siano oggi pericolosamente dati per scontati.
Il mio sconcerto deriva da una serie di fattori: il primo è che la serie TV, proprio su Netflix, bersaglio di feroci critiche per aver permesso che il prodotto arrivasse anche nel nostro Paese, sia segnalata in maniera più che visibile come show dedicato ai soli adulti; il secondo è che tutti i genitori che hanno inneggiato alla censura hanno dimostrato di non avere idea di che cosa sia il Parental Control di cui tutti i televisori moderni sono forniti per legge e, soprattutto, di non essersi resi conto per tempo di che cosa i loro figli stessero guardando, a riprova che, oggi più che mai, la televisione sia ancora considerata una sorta di baby sitter a basso costo. A questi due dati se ne aggiunge un terzo, relativo al contenuto stesso della serie, che ho voluto vedere la scorsa settimana non solo per nutrire la mia cinefilia, ma anche per comprendere meglio che cosa avesse sconvolto tanto genitori e docenti di mezza Italia. Così facendo ho scoperto che l’esaltazione della violenza per cui la serie ideata da Hwang Dong-hyuk viene tanto criticata, in realtà, non è presente. L’idea di un gruppo di persone così disperate da accettare di mettersi alla prova con giochi assurdi nei quali c’è in palio la loro stessa vita è solo lo sfondo su cui si muove una feroce critica della società contemporanea (soprattutto coreana, ovviamente) in cui il potere è concentrato nelle mani di pochissime persone senza scrupoli che, grazie alla possibilità di gestire vertiginose somme di denaro, si credono in diritto di disporre della vita dei disperati.
È ovvio che ne venga fuori uno show crudo e non destinato ai bambini, ma l’obiettivo dell’autore di Seul è quello di far riflettere su quali abissi di malvagità, talvolta persino legittimati dal sistema, la razza umana sia in grado di toccare e su quanto un’esperienza al limite possa cambiare le persone (un esempio su tutti è il percorso formativo del protagonista Seong Gi-hun, ma vi sfido a vedere la serie e ad affermare che non ci sia almeno un’altra mezza dozzina di personaggi a tutto tondo al suo interno).
L’appiattimento dell’opera a un prodotto sadico e privo di scopo, insomma, è a mio modesto avviso frutto di un’analisi superficiale (spero almeno alimentata dalla rabbia di essersi resi conto di non aver saputo supervisionare adeguatamente i propri figli) e, una volta di più, così poco costruttiva da non aver fatto realizzare a chi di dovere che forse la cosa migliore da fare era vederla e cercare di spiegare ai bambini quale fosse il vero messaggio che voleva trasmettere. Quella stessa superficialità, ovviamente declinata su un tema differente, è la causa della bocciatura in Senato del Disegno Di Legge Zan dopo mesi di stallo.
Anche in questo caso, il dibattito sul riconoscimento di alcuni diritti fondamentali si è appiattito velocemente sul solo tema dell’omofobia e delle unioni di fatto, travisando completamente il vero messaggio del testo. Non avevo certo la pretesa che la legge venisse adottata a scatola chiusa e comprendo sinceramente i dubbi di certa politica che fin dal primo momento si era opposta al disegno. Ma ciò non toglie che il giubilo con cui la bocciatura di una legge che avrebbe punito più severamente gli atti di violenza e odio, per motivi di identità, di genere, di orientamento sessuale e disabilità mi fa scorgere un futuro un po’ più tetro.
All’improvviso, la privazione di un diritto per alcune minoranze (e non i solo gli omosessuali, ma anche svariate categorie di bambini, di donne, di portatori di handicap…) è diventata una conquista salutata con cori da stadio, né più né meno che la morte dell’ennesimo concorrente del tanto criticato Squid Game della TV.
E sarei anche pronto a ritrattare quanto affermo oggi qualora un disegno di legge rivisitato sugli stessi temi mettesse d’accordo tutti i nostri rappresentati, ma quegli applausi mi fanno pensare che i tempi per una legge del genere siano ben lungi dall’essere maturi e che ci vorrà ancora più tempo, probabilmente, prima di vedere certi genitori indignarsi perché ai loro figli è stato impedito di vivere in un futuro in cui certe disuguaglianze siano finalmente state cancellate.

Foto: fanpage.it

Jacopo Giuca

Nato a Novara in una buia e tempestosa notte del giugno del 1989, ha trascorso la sua infanzia in Piemonte sentendo di dover fare ritorno al meridione dei suoi avi. Laureatosi in filosofia e comunicazione, ha trovato l’occasione di lasciarsi il nord alle spalle quando ha conosciuto la sua compagna, di Locri, alla volta del quale sono partiti in una altra notte buia e tempestosa, questa volta di novembre, nel 2014. Qui ha declinato la sua preparazione nella carriera giornalistica ed è sempre qui che sogna di trascorrere la vecchiaia scrivendo libri al cospetto del mare.

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