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“Non a me tanta felicità dagl’immortali fu destinata”

Stasi ULTIMA PUNTATA - La vicenda di Francesco Rossi giunge al suo adrenalinico epilogo. Catturato dalla polizia segreta tedesca e accusato di spionaggio, l’industriale calabrese dovrà subire le peggiori torture prima di riacquistare la speranza di poter tornare dalla sua famiglia.

Di Francesco Cesare Strangio

Barbara se ne andò senza salutare e si sedette in macchina come pietrificata; il corpo perse la naturale temperatura, tanto che non riusciva neppure a girare la chiave per avviare il motore dell’auto. Lentamente ritornò in sé, prese la via di casa e al suo arrivo vide il marito che stava uscendo per portare i bambini all’asilo.
L’uomo, dal volto della donna, intuì che fosse successo qualcosa di grave. Barbara prese il marito per il braccio e lo portò dentro casa. Non riusciva nemmeno a parlare tanto che il marito le diede un cognac che mandò giù di colpo.
Appreso quanto fosse successo, l’ufficiale della Stasi indossò la divisa e partì per recarsi nella sede centrale dove prestava servizio.
Erano le 8:30 quando varcò l’ingresso del suo ufficio. Nel domandare della sorte dell’italiano gli fu risposto che c’erano prove tali da aver fatto decidere la Stasi per il suo arresto.
In realtà le cose stavano diversamente. A Francesco Rossi erano state revocate tutte le forniture che avevano stipulato in un contratto bilaterale. Alla rescissione del contratto, Rossi pretendeva un risarcimento di cinque milioni di dollari a conseguenza dei danni che sarebbe andata a subire la sua azienda.
Per ovviare alle sue pretese, la DDR aveva ritenuto opportuno arrestarlo con l’accusa di spionaggio.
Da una tale imputazione era difficile districarsi. Per Rossi, ebbe inizio una terribile odissea.
Era ben conscio che la Stasi non scherzava e, senza un aiuto esterno, per lui era finita.
Stava per essere preso dal panico, quando si ricordò di Ulisse:

«Nestore, degli Achei gloria immortale»,
Telemaco riprese, «ei vendicossi,
E al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome
Nel canto se n’udrà. Perché in me ancora
Non infuser gli dèi tanto di lena,
Che dell’onte de’ Proci e delle trame
Potessi a pieno ristorarmi anch’io?
Ma non a me, non a Ulisse e al figlio
Tanta felicità dagl’immortali
Fu destinata, e tollerar m’è forza.»

A Barbara e al marito non restò altra strada che informare il generale, Klöden e il Console d’Italia.
Dovevano stare molto attenti se non volevano incorrere nell’accusa di complicità in attività spionistica.
Usarono un telefono pubblico, da dove chiamarono l’Ambasciata italiana per informarla di quanto fosse accaduto all’imprenditore.
La prima cosa che fece l’ambasciatore fu di informare la Farnesina che a sua volta informò la moglie di Rossi dell’accaduto.
La Farnesina, con la forza e la velocità che l’ha sempre caratterizzata, iniziò il processo burocratico riguardante il caso Rossi.
Si seppe poi, per sua voce, che era stato detenuto in un’umida cella di pochi metri quadrati, con una finestra protetta da sbarre di ferro anti evasione. Per letto aveva un tavolaccio dallo spessore di dieci centimetri; la sua lunghezza era tale che per dormire doveva assumere la posizione fetale; in un angolo c’era una specie di buco che fungeva da water. Le condizioni di quell’ambiente erano tali che lo portarono a ricordare, con nostalgia, il racconto di Gaetano del bagno comune delle mansarde di Corso Brescia a Torino.


Edil Merici

La notte lo svegliavano ogni cinque minuti. Quella metodica dell’interruzione del sonno era usata per infiacchire lo stato di coscienza del detenuto, indebolendolo a tal punto da essere facilmente gestibile in sede d’interrogatorio.
Nel frattempo la moglie si adoperò avvertendo il generale della Stasi in pensione e Klöden che si trovava a Malta.
Quando chiamò Maria a Zagabria, la notizia la sconvolse.
La cosa che le raccomandò fu di non dire niente ai suoi.
Dopo circa un quarto d’ora il centralino annunciò a Stefica una chiamata dalla Jugoslavia; era Stevo, voleva conferma su quanto gli aveva detto la moglie.
Poi le aggiunse che si sarebbe interessato al caso Tito in persona.
Nel frattempo, a Berlino, nella prigione della Stasi, Rossi fu trasferito in una cella d’isolamento: si trattava di uno spazio angusto, dove c’era l’acqua sul pavimento alta da tre a quattro centimetri. Per tutto il periodo di detenzione era rimasto al buio assoluto, senza possibilità di sedersi e senza servizi igienici. Ci si può immaginare in che stato doveva essere la cella dopo una settimana di completo isolamento.
Da quell’inferno fu trasferito nella cella scura di gomma (Gummi-Dunkelzellen), situata nello scantinato del Neubau, la sua funzione era quella della tortura psicologica.
Le pareti delle celle erano rivestite di gomma nera; in quel luogo infernale, non entrava neppure uno spiraglio di luce. Il prigioniero si ritrovava chiuso al buio per giorni, incapace persino di sentire la propria voce.
Perdeva così la cognizione del tempo ed era presto assalito dall’angoscia, da una paura viscerale fino ad arrivare al dubbio di non esistere.
I detenuti erano lasciati intenzionalmente al buio, una tale condizione li portava ad avere la sensazione di essere nelle mani di uno Stato onnipotente.
In quella prigione erano detenute persone che avevano cercato di fuggire o avevano commesso l’imprudenza di chiedere l’espatrio.
Tra i reclusi c’era una moltitudine di cittadini per motivi politici, sospettati di essere stati nazisti e spie.
Friedrich si mise in contatto con un suo amico a Mosca che era a capo del potente KGB e lo sollecitò a prendere parte attiva nel caso Rossi.
La pressione dell’URSS e quella di Tito portarono la DDR, la mattina del 29 settembre del 1969, a rilasciare Francesco Rossi. Ufficialmente la sua liberazione fu giustificata con lo scambio di due spie della DDR. I mezzi d’informazione furono tenuti all’oscuro, tanto che la storia rimase a conoscenza soltanto delle persone che ne furono direttamente coinvolte.
Oggi Rossi, in realtà il cognome è uno pseudonimo, vive a Salerno con la sua famiglia.
Gaetano sposò la prima cugina di Stefica e si trasferì in Calabria.
Il generale della Stasi si trasferì con la famiglia in Italia.
Klöden, e famiglia, si trasferì in Grecia; mentre Barbara, con il marito e i figli, si ricongiunse con la madre a Bergamo e andarono ad abitare in una villa isolata nella periferia della città.
La fabbrica dei profumi fu venduta a una multinazionale nel settore dei cosmetici…

Foto: visitberlin.de

Redazione

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