Il Natale solidale di Pardesca
E poi, nei freddi inverni del mio cuore, mentre nostalgico incallito cerco di dar fiato alle più antiche reminiscenze, mi accorgo che riaffiorano alcune particolari serate con gli amici. E la pace si posa, serafica, dentro di me; una pace co stellata di gioiosi e solenni canti; una pace che emerge dai recessi più profondi per dar credito ai ricordi.
Che lodevole sensazione! Che musica per lo spirito, quasi che la mia anima sia davvero rimasta incastrata tra le mura, i borghi, le strade, i vicoli di quel paese ai piedi dell’Aspromonte. Incastrata per sempre.
E sono di nuovo a Pardesca.
Quel piccolo borgo di contadini, di braccianti, di gente semplice figlia di un Dio minore.
Quel paesello teatro di giochi, di svaghi, di scherzi. Scherzi sinceri, inoffensivi, privi di cattiveria o secondi fini. E ancora oggi, a distanza di tanti anni, la mia mente ha il potere di farmeli rivivere. Uno per uno.
Di Pardesca, tra le cose che più mi sono rimaste impresse nel cuore, primeggia il periodo natalizio, quando gli alberelli della piazza si vestivano di allegria, con capelli d’angelo e luci a intermittenza. Ricordo perfet tamente questo particolare, che veniva accolto da noi ragazzi come un segnale – il primo di una lunga serie – dell’avvicinarsi dell’evento più atteso dell’anno: il periodo di Natale. Si trattava di un evento quanto mai singolare, più sentito della festa patronale, più amato della Pasqua, preferito persino all’estate quando ci prendevamo uno spicchio di rivincita nei confronti della vita sguazzando nelle limpide e calme acque dello Ionio.
musicale abbracciata, puntualmente ogni anno, da Benito Gimondo e la sua équipe. Il gruppo di ragazzini, da lui diretto, percorreva, passo passo, il paese al suono di Tu scendi dalle stelle tra la pioggia di scintille generate dalle stelline di Natale.
Quale canto più propiziatorio avrebbe potuto riempiere i cuori e gli animi della povera gente di borgata?
Serate che accoglievamo con grande entusiasmo, in un’atmosfera di solenne pace festiva. Perché, come molti di noi ricorderanno, in quel l’epoca si viveva di piccole e semplici cose.
Nelle lunghe e gelide serate, a farla da secondo padrone era un altro importante evento: il fuoco in piazza.
L’accogliente grande falò era prepa rato con cura, seguendo delle specifiche procedure, quasi si dovesse, un giorno, presentare il conto al Dio delle tradizioni.
Un evento capace di raccoglierci tutti; teatro di burle, di giochi, di indimenticabili serate.
E le nocciole? Quanti ricordi racchiudono in sé le nocciole? Con esse giocavamo alle nucille, un passa tempo simile a quello delle bocce, con la differenza che, dopo aver tracciato le distanze, si costruiva con esse una sorta di castello. Chi, tirando u baglhju (una nocciola molto più grande) riusciva a colpire il castello, aveva diritto a incassare tutte le nocciole con cui questo era stato costruito. Altro gioco era l’arcipitotu, una piccola trottola rettangolare in legno con incisa sulle quattro facciate l’equivalente della vincita o della perdita. E si vinceva e si per deva a seconda della facciata su cui fniva il suo trottolare, un po come il gioco dei dadi. Ognuno faceva la propria puntata ( in nocciole, naturalmente) e, con uno schiocco di dita, si faceva piroettare il curioso strumento, che decretava cosi le sorti delle nocciole di noi bambini.
Si giocava anche alla righetta, una linea che veniva tracciata per terra in senso orizzontale e verso la quale, dopo averne stabilito la distanza, si lanciavano delle monetine di cinquanta o cento lire, a seconda della puntata; chi arrivava il più vicino alla riga incassava le monete dei partecipanti meno fortunati.
C’era, infine, il percorso programmato dall’Azione Cattolica, che consisteva nella preparazione dei canti per la notte di Natale, nell’allestimento del presepe e altre cose di na tura simile. Iniziava, così, la raccolta di muschio, di paglia, di pietre, di piante dì corbezzolo che, con i loro ramoscelli e i loro accesi frutti, andavano a ornare le vie di Betlemme, i dintorni del laghetto, gli angoli della grotta in cui, la notte del 25, appariva, quasi per miracolo, il neonato che durante le seguenti fasi dell’anno e secondo la liturgia cattolica ci avrebbe affrancati dai peccati.
Questa era l’atmosfera che si respirava allora. Un caldo e festoso clima che, danzando trionfante nell’aria, si dichiarava in tutto il suo incontenibile fascino sin dai primi giorni di dicembre.
Sembrava che tutto prendesse coscienza di sé al calar del sole, quando la piazza si illuminava a festa e i ragazzini, ora portando un ciuffo di muschio o di paglia in chiesa, ora regalando all’aria una nota musicale, ora aggiungendo legna al falò, contribuivano a questo magico evento. Un’atmosfera consolidata – sfortunatamente solo per quel periodo – nei nostri gesti, nel nostro sentirci uniti, fratelli e molto di più.
Questo incredibile stato di cose aveva il potere di dare un’anima e una costituzione alle nostre serate, accendendo, peraltro, gli animi e i cuori di chi viveva nella speranza di un futuro d’amore, di pace e solidarietà.
Riuniti intorno a quell’unico proposito, davamo ognuno il nostro contributo al fine di preparare il cammino alla notte che, per Divina Concessione, avrebbe dato all’umanità una possibilità di salvezza: Nostro Signore Gesù Cristo.
Tutte cose che dovrebbero indurre i giovani d’oggi a effettuare una certa riflessione; una riflessione non tanto di carattere educativo, quanto di coscienza civica.
Perché queste cose, prima di essere viste da un punto di vista culturale, vanno considerate per quello che offrivano: una sintonia popolare molto euritmica e significativa che (come abbiamo avuto modo di capire in questo ennesimo viaggio a tempo) varcava i confini del tempo stesso per assicurarsi un posto nella storia di questo nostro piccolo lembo di paradiso.
Foto: clarusonline.it