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Costume e SocietàLetteratura

Il suggerimento di Donna Rosina

Il cartomante di Torre Normanna VII


Edil Merici

Di Bruno Siciliano

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Scorri in fondo all’articolo per ascoltare questo capitolo del romanzo letto dalla viva voce di Bruno Siciliano!

Era la mattina del sabato, una calda mattinata nella quale chiunque avrebbe preferito andare al mare piuttosto che attendere a qualunque servizio.
Don Ferrante, prete all’antica che non aveva mai sopportato di indossare gli abiti borghesi, nonostante il caldo accompagnò in caserma donna Rosina con la sua pesante palandrana.
Appena entrati, il maresciallo Stracuzza fece accomodare i due nel suo ufficio.
«Faccio portare dei caffè?»
«No, maresciallo, per me no, vi ringrazio.»
Donna Rosina fece soltanto di no con la testa.
Era molto timida, la donna. Ma non era solo timidezza, sembrava piuttosto fosse shoccata da qualcosa che le era successo e dalla quale non s’era più ripresa. Si sedette quasi in punta di sedia, con gli occhi che guardavano le sue stesse mani abbandonate sulle ginocchia.
«Donna Rosina – cominciò don Ferrante – il maresciallo vorrebbe chiedervi qualcosa:  vuole riuscire a capire chi abbia voluto fare tanto male a Mastru Vitu.»
La donna guardò il prete e fece solo un impercettibile segno di assenso.
Tutti, in paese, conoscevano donna Rosina e la sua storia. Forse gli unici a non conoscerla erano proprio il maresciallo e don Ferrante, che era giunto in quella cittadina da una diocesi del napoletano in cui aveva avuto delle vicissitudini con alcune parrocchiane, e il vescovo del luogo aveva deciso di fargli cambiare aria per un po’ di tempo. Nulla, però, è più definitivo del provvisorio e, dopo circa dieci anni, don Ferrante si trovava ancora in quella cittadina come arciprete della Cattedrale.
Ma questa è un’altra storia.
Donna Rosina era stata una bella ragazza, figlia di una povera famiglia delle campagne circostanti, e fu accusata di essere, sin dalla nascita, responsabile di fatti nefasti e accadimenti misteriosi. La levatrice che l’aveva fatta nascere morì d’infarto nel ritornare a casa e il suo padrino di battesimo fu ucciso la sera prima della cerimonia in un agguato organizzato dall’amante, perché lui avrebbe voluto lasciarla.
Passarono gli anni e si moltiplicarono i casi e le coincidenze. Un carro che si ribaltava al suo passaggio, la statua della Madonna delle Grazie che perdeva la corona in processione, fatti piccoli e grandi che decretavano una cosa sola: Rosa portava sfortuna. Dovunque andasse, qualunque cosa dicesse, portava sventura, ormai era cosa nota a tutti. Per questo i suoi genitori vivevano, ormai, quasi isolati dal paese e nessuno comprava più il grano o l’olio o i prodotti della terra che il padre vendeva al mercato ed erano ormai ridotti in miseria.
Così, un giorno, il parroco prese una decisione: era indubbio che Rosa avesse in sé un che di demoniaco, dunque doveva essere isolata in un luogo sacro. Il convento delle  suore di Sant’Anna sarebbe stata la soluzione. Fu così che Rosa, a poco meno di sedici anni, varcò il grande portone del convento che fu delle Clarisse, successivamente passato a un ordine diverso di suore che non avevano più l’obbligo della clausura, ma che operavano piuttosto nel sociale. Là imparò un mucchio di cose: il Vangelo e i Salmi, ma anche l’egoismo, le preghiere, l’annullamento della propria personalità, l’invidia e tante altre cose che nulla avevano a che fare con le sacre scritture.
Si dava da fare, là nel convento, aiutava in cucina e anche nell’orto, dove quasi giornalmente incontrava Sebastiano, il giardiniere che le donava le pesche, i melograni e l’uva che quando perdeva l’amarezza e maturava sotto il sole della Calabria diventava dolce, buona e succosa. Le insegnò a potare i rami superflui dei peschi e dei pruni e un giorno le insegnò pure a fare l’amore, finché una sera Rosa si accorse che il suo ventre si gonfiava ogni giorno di più. Comunicò questa sua affezione alla Madre Superiora che, tra strepiti e vituperi, le comunicò che non era una malattia ma che, piuttosto, lei aspettava un bambino.
Poi arrivò una notte d’estate in cui l’aria era tersa e purissima e non si aveva più memoria dei temporali che l’avevano turbata durante l’inverno appena trascorso. Così, tra il canto dei grilli nell’orto e il coro delle ranocchie, Rosa partorì un bambino, un bellissimo maschietto cui le suore diedero il nome di Donato. Lo vide per una notte soltanto poi, al mattino, non c’era più. Le tenere sorelle avevano pensato bene di dare il piccolo in adozione senza dire nulla a Rosa, che si chiuse in un cupo mutismo e non parlò più.

Non un solo accento s’udì più dalla sua bocca, né un lamento, né un pianto sgorgò mai più dai suoi occhi. La notizia che non avrebbe mai più visto il suo bambino l’aveva basita a tal punto da farla estraniare dal mondo che la circondava e non voler più comunicare con nessuno. Nulla assunse più per lei interesse. Partecipava alle funzioni cui le devote sorelle la conducevano come fosse fuori dal mondo, s’inginocchiava quando le altre lo facevano e come le altre si segnava, ma senza proferire parola alcuna, similmente a una bambola di pezza senza più anima né sentimento.
In quell’ameno luogo raggiunse i suoi ventun’anni e, usando quel po’ di comunicativa che negli anni era riuscita a riacquistare, chiese di andarsene per la sua strada. Avrebbe eseguito i lavori domestici presso una qualche famiglia benestante e badato ai figli degli altri, ma non avrebbe più pianto né riso né amato.
Il maresciallo Stracuzza si rivolse, dunque, a Rosina:
«Voi sapete che Mastru Vitu prestava soldi?»
Rosina fece di no con la testa.
«Allora tutti quelli che venivano da Mastru Vitu lo facevano per farsi leggere le carte?»
Donna Rosina, a questo, punto fece spallucce e Stracuzza capì che anche quella sarebbe stata un’altra mattinata di quelle con i fiocchi.
Dove teneva Mastru Vitu i suoi appunti e le sue carte?
Rosina non rispose, ma si alzò e si appoggiò alla scrivania del maresciallo, l’accarezzò, poi seguì con un dito i contorni dei cassetti e del piano, guardò il maresciallo e abbozzò un sorriso.
Il maresciallo capì ma, rivolto a don Ferrante, disse:
«Abbiamo già guardato nella scrivania. Abbiamo rivoltato quei cassetti uno per uno ma non c’era nulla, in quella scrivania. Ci riproveremo ancora. Grazie, don Ferrante, ma dubito Rosina ci dirà nient’altro. Vi ringrazio lo stesso.»
I due si alzarono, il maresciallo li ringraziò di nuovo ed essi uscirono.
«Cristina!» chiamò Stracuzza, che intanto accese un puzzolentissimo toscano raccattato chissà dove in giro per l’ufficio.
L’appuntato Cristina del Buono fece il suo ingresso nell’ufficio del maresciallo, annunciata da un profumo di quelli buoni e costosi.
«Comandi.»
«Attaccati al telefono, rintraccia qualcuno della scientifica e fammeli venire domattina in caserma, che si portino pure un falegname.»
«Domani è domenica, Maresciallo.»
«Sarà pure Domenica, ma io ho bisogno di loro lo stesso, è urgente.»
«Comandi» esclamò di rimando l’appuntato Del Buono, scattando sull’attenti, e uscì per eseguire immediatamente l’ordine ricevuto.
L’indomani avrebbero fatto, dunque, un altro sopralluogo a casa di Mastru Vitu.
Ci siete mai stai in un paese della Calabria in piena estate, verso le due del pomeriggio?
Sembra di vivere in uno di quei film western di Sergio Leone. Non una sola persona per strada e il sole che si riflette sull’asfalto fa di tutto per cuocerti il cervello. Non bastano neanche gli occhiali da sole più scuri per impedirti di strizzare gli occhi per la luce intensa. Il sudore ti scende lungo la schiena anche se non fai un solo movimento e ogni cosa richiede uno sforzo sovrumano, anche sedersi semplicemente al bar. La strada è deserta, sono tutti a casa a lamentarsi per il caldo o a godersi l’aria condizionata. Non si riesce a prendere in considerazione nemmeno l’idea di fare persino l’amore, costa troppa fatica e poi… fa caldo!
Giulia, invece, ne aveva una voglia del diavolo e aveva costretto Luciano a fare insieme a lei una doccia rinfrescante. Si asciugarono vicendevolmente e lei lo abbracciò e lo baciò. In cuor suo era convinta che poteva nascere qualcosa con l’appuntato e voleva cancellare dalla mente del suo Luciano ogni desiderio di approccio. Per questo motivo, quel pomeriggio, a casa Stracuzza, nonostante il caldo, ci furono le grandi manovre. Che cos’è l’amore? È quella cosa che non ti fa dormire e che, se anche dormi, sogni solo della persona amata mentre qualunque cosa ha il suo sapore, il suo profumo e il suono della sua voce. Ma che cos’è quest’amore? Fu in nome di questa cosa strana che Giulia volle, quel pomeriggio, esorcizzare qualunque pensiero diverso dal proprio amore nel cuore del maresciallo.
Erano le nove di Domenica mattina. L’appuntato Cristina del Buono aveva poggiato sulla scrivania di Luciano Stracuzza l’ennesima tazzina di caffè quando il telefono cominciò a squillare…

Foto: faoma.com


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