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Attualità

Vizi capitali e nuovi vizi: l’invidia


Edil Merici

Di Mario Staglianò

L’invidia, scrive Herman Melville, si annida nel cuore non nel cervello e nessun grado di intelligenza può fornire un riparo contro quel male. Le fiabe sono piene zeppe di quella che viene anche chiamata la passione triste. Biancaneve ne è, forse, l’esempio più lampante perché non vi sarebbe storia, non vi sarebbe mela avvelenata, senza l’invidia della bella regina cattiva nei confronti della tenera fanciulla dai buoni sentimenti. Ma l’invidia, contrariamente a quanto pensa una certa letteratura e una certa cultura popolare, non è solo donna. Il teatro di William Shakespeare ci offre numerosi e inquietanti esempi di invidia tanto che potrebbe essere definito un teatro dell’invidia come nell’Otello in cui Iago è anche invidioso del posto di luogotenente per il quale Otello gli ha preferito Michele Cassio.
Una cosa è certa. Come dimostrano le brutte e antipatiche sorellastre di Cenerentola, l’invidia non ha mai reso bello nessuno ,anche perché essa appanna lo sguardo e lo rende bieco e torvo. La parola deriva infatti dal latino, dal verbo video, vedere, per cui l’invidia nasce nell’occhio, dallo sguardo ed è li che si annida e si manifesta. A differenza degli altri vizi capitali l’invidia non ha dei segni immediatamente riconoscibili se non quello che possiamo notare nello sguardo della persona invidiosa. Invidere vuol dire gettare il malocchio per cui capiamo subito, attraverso l’etimologia, questo aspetto e cioè la persona invidiosa guarda l’oggetto della sua invidia con uno sguardo livido e obliquo che contiene, appunto, un po’ tutto il livore e l’astio proprio dell’invidia. I Greci parlavano di un occhio maligno che esprime molto efficacemente la torsione ambigua, obliqua, nascosta di questa passione che è difficile riconoscere perché bisognerebbe, appunto, coglierla in quell’attimo fuggente in cui si manifesta nello sguardo maligno della persona che prova invidia.
L’invidia presuppone una struttura bipolare nelle persone, cioè io invidio l’altro perché possiede qualcosa o è qualcosa che io non possiedo o non sono. Essa nasce dalla sofferenza per ciò che l’altro è o possiede, per il bene dell’altro dato che invidia significa soffrire per il bene dell’altro o, addirittura, in una versione più radicale, che è quella della gioia maligna, significa godere del male dell’altro. Una sorta di vendetta sorda rispetto a qualcuno che vediamo in disgrazia e che, magari, prima si è invidiato.
Dell’invidia si parla nell’antichità greca come di un sentimento comune a uomini e a dei e dell’invidia parla la letteratura cristiana per stigmatizzarla. Passato il Medioevo, con la fine del feudalesimo e con la nascita di una nuova società borghese, l’invidia comincia a essere vista diversamente e una passione così meschina inizia ad avere una valenza positiva. Pensiamo appunto a quella che chiamiamo modernità, quanto meno dal ‘700 in poi, alla nascita della società borghese e capitalistica. Lì le passioni competitive, compresa l’invidia oltre all’orgoglio e all’avidità, sono state tratteggiate nella loro negatività riconoscendone la qualità negativa vedendo, allo stesso tempo, la loro possibile funzione propulsiva. L’invidia mi spinge, appunto, a competere, mi spinge a migliorarmi, mi spinge a voler eccellere e questo fa fortemente parte della logica emotiva che sta alla base della società capitalistica. Una società di concorrenti, come direbbero gli americani, indipendentemente dalle torsioni che questa competizione assume. La crescita, lo sviluppo, il progresso che sono tutti i grandi miti della modernità e del capitalismo presuppongono, anche, passioni come l’invidia; bisogna un po’ lasciarle lavorare perché questo poi dia i suoi frutti. L’invidia come motore dello sviluppo capitalistico e dell’individualismo. Come viene declinata l’invidia nell’età contemporanea all’interno delle democrazie occidentali? La democrazia è, esattamente, il luogo di alimentazione della passione invidiosa perché la democrazia è uguaglianza e, allora, in una società di uguali, non si tollera nessuna differenza. Questo è uno dei risvolti oscuri della democrazia, generalmente poco frequentato. Se è vero che la domanda fondamentale che presiede all’invidia è “perché lei/lui sì ed io no?” possiamo ritradurla nell’altra domanda “se siamo uguali perché lui/lei si ed io no?”. Questo vuol dire che la democrazia non tollera le differenze e allora gli individui fanno di tutto per tenere basso il livello preferendo abbassare anche il loro stesso livello purché l’altro non si innalzi al di sopra di loro in un meccanismo che Friedrich Nietzsche aveva individuato molto bene con il suo solito acume. Tanto più la democrazia si espande, tanto più essa è percorsa da una serie di problemi quanto più questo aspetto si accentua. Nella società contemporanea è sicuramente molto forte e molto pervasivo anche rispetto ai secoli precedenti proprio perché l’uguaglianza è diventato un diritto incontestabile. È una passione, vogliamo essere assolutamente uguali agli altri nel senso di non sopportare la benché minima differenza; la minima differenza produce una sorta di ferita narcisistica che è il nucleo fondamentale dell’invidia. L’invidia è la reazione di un soggetto – sostanzialmente fragile, insicuro e incerto – che si sente colpito nel proprio narcisismo e nella propria identità. Laddove c’è una gerarchia l’invidia non può più di tanto manifestarsi; il servo non invidia il signore mentre l’operaio invidia il capitalista dato che, si presume, tutti abbiamo le stesse chance e le stesse possibilità ma, poi, questo non è reale, non è vero.
Volendo riflettere sui meccanismi della società contemporanea ci sono tutta una serie di fattori che ci mettono di fronte a questa trasformazione e radicalizzazione dell’invidia. Almeno due aspetti della società contemporanea sono veri e propri ricettacoli di invidia: il mito del successo e la società dei consumi o società dello spettacolo. La ricerca del successo era prima fondata sull’impegno, sulla fatica, sulla competenza anche sulla rinuncia e sul sacrificio mentre oggi il successo è qualcosa che si vuole tutto e subito, senza impegno, addirittura senza competenza all’insegna dello slogan Life is now. Tutto è solo presente e deve essere ottenuto adesso, subito e senza progettualità spesso in un successo senza ragione e senza merito in una vorace immediatezza.
L’altro aspetto è il consumo che diventa, in presenza di un’ identità liquida, senza punti di riferimento e presupposti solidi, un mezzo per affermare la propria identità dato che non si consumano solo merci ma, in primo luogo, marchi. La sfera del consumo ha assunto tutti gli ambiti del sociale: si consuma politica, sentimenti, emozioni in una sorta di mercato e ostentazione delle emozioni per lo più false, artificiali e costruite e in cui anche le tragedie vengono consumate diventando spettacolo.

Foto: donatasalomoni.it


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