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Costume e Società

Salario minimo: il ritorno all’Impero Romano?


Edil Merici

Di Franco Napoli – Presidente di Benessere per la Jonica

Chi si occupa di problematiche socio-lavorative rimane basito sentendo parlare, in un mondo globalizzato,   ancora di salario termine veramente anacronistico e fuorviante per il cittadino costretto dai media a leggere e sentire un sacco di imprecisioni.
E poi sindacalisti e politici si lamentano che la gente non va a votare e nessuno più li segue! Se non si è nati già vecchi, ricordo che siamo nel terzo millennio e nelle attività lavorative, anche quelle con variabile, si dovrebbero utilizzare termini più adeguati all’attualità e alle politiche lavorative, come ad esempio Compenso, Retribuzione, Corrispettivo, Remunerazione, Indennità oraria, e così via.
E se da un ventennio e più chi si è succeduto in politica ha perso, per opportunità ideologica, la maggior parte del tempo a disgregare quello che in passato c’era anche di buono, ora con il salario minimo torniamo all’epoca prima di Cristo, quando con il salarium veniva creata la paga dei soldati utile ad acquistare una razione di sale, ma almeno quella era al netto di tasse!
Da anni, anche gli addetti ai lavori, nei tanti salotti televisivienel parlato quotidiano, non fanno differenza tra salario e stipendio. Tendiamo a usare l’uno o l’altro termine per riferirci alla retribuzione che spetta ai lavoratori ma i due termini non hanno effettivamente lo stesso significato. Nella remunerazione si usa il termine salario per riferirsi al compenso ricevuto da quelli un tempo definiti colletti blu, cioè i lavoratori con impieghi manuali o comunque legati alla produzione. Con la parola stipendio, invece, si allude ai colletti bianchi cioè ai lavoratori d’ufficio, distinzione, per quanto corretta, piuttosto desueta, e generalmente superata.
Di fatto, la principale differenza tra salario e stipendio consiste nel fatto che il salario varia in base alle prestazioni di lavoro (ore, giorni, unità produttive), mentre lo stipendio costituisce un compenso prestabilito e non variabile.
Ma per combattere le diseguaglianze sociali, per uniformare il benessere in tutto il paese, gli italiani e le nuove generazioni hanno bisogno più di un salario o di uno stipendio? In tanti pensano allo stipendio.
Con la proposta di instituire il salario minimo torniamo all’impero Romano, concetto che, nell’enfasi sembra purtroppo non ben capito sia dagli elettori di sinistra sia da molti della destra. Attualmente per l’85% dei lavoratori in Italia il salario minimo non esiste, essendo il cosiddetto minimo salariale disciplinato dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro nati su basi corporative e affidati agli accordi tra i sindacati che rappresentano i lavoratori e quelli che rappresentano le aziende a cui lo Stato ha demandato la possibilità di proporre un minimo salariale per categoria: ecco perché sarebbe più appropriato parlare di stipendio, anche se in questo caso mancherebbero diverse tutele sociali.
Se la proposta dovesse essere accettata, vediamo cosa succederebbe in zone come la nostra in atto di incerto futuro, da sempre arretrate e abbandonate, in cui il lavoro è sempre mancato incrementando la diseguaglianza sociale e, con questa la delinquenza, nell’abulia generale, tant’è che molti, in momenti di disperazione, maledicono persino l’Unità d’Italia e rimpiangono le gabbie salariali. Nei suoi scritti Corrado Alvaro, di San Luca, spiegava che quando per un uomo buono e onesto vivere correttamente diviene impossibile, in quel momento per quell’uomo inizia la disperazione, che non ha mai portato a niente di buono.
Con la proposta salariale i trattamenti economici minimi continuerebbero a essere stabiliti dai CCNL con quota oraria di partenza di 9 € che varrà anche per i contratti di lavoro già stipulati costringendo a rivedere al rialzo la retribuzione, pertanto un oneroso effetto retroattivo, interessando i contratti di lavoro subordinato, parasubordinato e autonomo tra cui il settore dei servizi (per esempio, la vigilanza privata) e dell’agricoltura, nonché il lavoro domestico, in cui si sono dimenticati di inserire tutte le nostre donne, le cosiddette casalinghe che qui da noi rappresentano la spina dorsale della società e meriterebbero un bonus adeguato.
Una soluzione alternativa potrebbe essere quella di concedere ai sindacati maggiormente rappresentativi la possibilità di stipulare Contratti Collettivi con retribuzioni parametrate al territorio, adattando il minimo salariare alle condizioni particolari delle zone in cui il costo della vita è nettamente inferiore (zone depresse) o superiore (per esempio grandi centri urbani) rispetto alla media nazionale. Si ritornerebbe alle gabbie salariali abolite negli anni ‘70 che, comunque, in qualche modo garantivano il benessere nazionale ancor oggi non realizzato, supportato dallo Stato, ribattezzato assistenzialismo, e dall’attività della Cassa del Mezzogiorno operante in Regioni da poco istituite che Alcide De Gasperi non voleva perché aveva capito che potevano diventate, com’è stato, dannose “repubbliche indipendenti” incrementanti gli egoismi e le dis- equità, l’una a discapito dell’altra. Se così non fosse nemmeno ai sindacati conviene l’introduzione del salario minimo, perché toglierebbe loro un enorme potere, uno dei pochi che è rimasto nelle loro mani, visto che col tempo le loro battaglie hanno perso molta capacità di attrazione tra i lavoratori.
Ma anche le imprese premono per una misura alternativa al salario minimo: il taglio del cuneo fiscale che a loro converrebbe perché, a parità di spesa, verserebbero di più al lavoratore, motivandolo, e pagherebbero di meno allo Stato. Infine, politicamente il salario minimo, se introdotto, tutelerebbe non così tante persone: solo il 18,4% dei 23.300.000 lavoratori in Italia guadagna meno di 9 euro lordi all’ora. Si tratta di oltre 4.000.000 di persone, una fetta di elettorato che farebbe comodo a forze politiche non governative.
Allora Benessere per la Jonica, preso atto che salari e stipendi scarseggiano nella nostra zona, in cui le retribuzioni, quando esistenti, sono sempre al ribasso, e che i pochi e coraggiosi datori di lavoro non avrebbero la possibilità di adeguarsi, chiedie alla politica prima di tutto la dignità di potere considerarci dei cittadini italiani, non da terzo mondo, e di adoperassi per mantenere e generare posti di lavoro favorendo le nostre aziende. Lo Stato, amministrazioni comunali comprese, non ci chiedano gentilmente ulteriori sacrifici e non ci applichino artifizi e trabocchetti imponendoci di diventare sempre più poveri non solo economicamente.


GRF

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