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Costume e SocietàLetteratura

La compagnia di Argo

Storie d’altri tempi


Edil Merici

Di Francesco Cesare Strangio

Preventivamente Marco aveva domandato alla cugina Elisabetta, con largo giro di parole, se la notte dormisse tranquilla. Elisabetta gli confessò di avere il sonno pesante e la cosa la preoccupava non poco, poiché temeva che se fossero entrati in casa i ladri, non si sarebbe accorta di nulla. Ad ogni modo Marco, per prudenza, stava attento a produrre il meno rumore possibile.
A un tratto lo sguardo gli andò sull’orologio e notò che le quattro erano passate da dieci minuti. In tutta fretta scese dal soppalco e nascose gli attrezzi nell’angolo, dove la luce della lampadina, messa vicino all’ingresso, non riusciva a illuminare. Una volta uscito, badò bene di sostituire il lucchetto con uno dello stesso tipo. Lo scopo era di impedire a Elisabetta di entrare, prima che tutto fosse finito.
Marco, con passo felpato, arrivò al portone che dava sulla viuzza, aprì con cautela e diede uno sguardo in giro per sincerarsi che non ci fosse qualcuno in transito nella stretta via. Una volta resosi conto che la via era libera, saltò sulla bici e via in direzione della propria dimora. Arrivato a casa, il cane Argo lo riconobbe e si avvicinò scodinzolando, manifestandogli la propria fedeltà. Marco gli passò la mano sulla testa accarezzandolo con affetto.
Un giorno suo padre, nel tornare dalla campagna, gli aveva portato un piccolo cucciolo di cane; Marco aveva appena compiuto otto anni e quando aveva visto l’animaletto, fece una gran festa. Il nome glielo aveva assegnato dietro consiglio del nonno Marco che, ricordandosi del cane di Odisseo, aveva suggerito al nipote di chiamarlo Argo, poiché era un nome di grande valore nella memoria degli uomini.
A un passo dall’uscio di casa Marco scostò una pietra: sotto era solito custodire la chiave della porta d’ingresso. Prese la chiave, la infilò nella toppa; quattro giri in senso antiorario e la porta si aprì. Argo stava seduto a circa un metro dall’uscio attendendo pazientemente l’invito del padrone per accedere in casa. Marco, nel vedere il vecchio compagno in attesa, disse: «Che cosa fai? Non vuoi entrare? È possibile che tutte le volte ti debba invitare?»
Argo differiva dagli uomini per l’aspetto e l’incapacità di parlare. Per certi aspetti, era molto più intelligente di tante persone.
Argo, da un pò di tempo, era affetto dalla tipica stanchezza dovuta all’età. Marco sapeva che non ci sarebbe voluto molto tempo per la sua dipartita. Erano passati venti anni dal giorno in cui il cane entrò a far parte della sua vita. Fera era così abituato alla sua presenza che disquisiva con lui come se fosse il fratello che non aveva mai avuto.
Stanco per la mancanza del sonno e per il lavoro svolto, si sdraiò sul divano e Argo gli saltò addosso leccandogli il volto. Il cane, come se sapesse della stanchezza dell’amico, scese e si sdraiò vicino al divano; guardava il padrone con interesse, come se volesse capire cosa stava combinando. Marco, avvedutosi del modo in cui Argo lo guardava, iniziò a esporgli quanto aveva in programma, aggiungendo che, una volta finito tutto, avrebbe costruito una casa con un grande cortile al cui centro avrebbe realizzato una cuccia così bella che chiunque l’avesse vista non avrebbe potuto fare a meno di complimentarsi con lui e congratularsi con Argo per la reale dimora.
Il cane lo guardava con i suoi grandi occhi color nocciola; oramai il tempo della gioventù di Argo faceva parte del cimitero del tempo passato. Il pelo lucido non c’era più, era caduto lasciando scoperta una parte della sua pelle. Marco stava per essere sopraffatto dal sonno: il non dormire in quelle particolari ore, gli portò una notevole stanchezza. Anche Argo era coperto da uno spesso velo di stanchezza procuratogli dall’attesa del padrone.
Marco mise la sveglia al solito orario perché voleva essere puntuale come sempre al Bar Carducci, così nessuno, una volta scoperto il furto alla posta, avrebbe sospettato di lui.
Puntuale, il marcatore del tempo fece sentire la sua voce alle sette. Marco si stiracchiò e lo stesso fece Argo. Come al solito calzò gli anfibi e saltò sulla sua Moto Guzzi Zigolo 110 e mosse verso il centro del paese. Puntuale come sempre c’era don Angelo seduto al solito posto a chiacchierare con don Giulio, noto proprietario terriero del luogo. Immancabilmente, il tema del loro discorso era la recente rapina all’ufficio postale: in paese e dintorni non si parlava d’altro. Ognuno, in merito alla rapina, raccontava la sua; tutti erano convinti di essere vicinissimi alla verità.
Marco prestò orecchio a quanto diceva il prete: sapeva che dal parroco sarebbero potute uscire delle mezze verità. Se qualcuno avesse visto qualcosa, per paura non andava a raccontarlo in giro, ma al prete sì. Per una tale ragione Marco rimase in costante attenzione. Niente! Non uscì nulla da don Angelo.
Fera, dentro di sé, rideva, perché pensava la faccia della gente una volta scoperto il furto messo a punto da lui. Il pensiero lo eccitava e lo esaltava, giacché tutto sarebbe stato portato a termine senza sparare un solo colpo; l’intelligenza sopra ogni cosa, ecco cosa lo faceva gioire.


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