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Attualità

Giorgio Napolitano: la fine eleganza di un uomo risoluto.


Edil Merici

Di Vincenzo Speziali – Responsabile Regionale e membro della Direzione Nazionale dell’UDC

Durante gli anni in cui Giorgio Napolitano è stato Capo dello Stato (primo ex Comunista ad assurgere al Quirinale, primo a essere rieletto alla guida del Paese, nonché primo esponente del Partito Comunista Italiano a divenire Ministro dell’Interno, precisamente durante il primo Governo Prodi, tra il 1996 e il 1998, ma persino primo tra i dirigenti di Botteghe Oscure, ovvero la sede storica dei compagni italiani, costruita dal nonno di Alfio Marchini, meglio conosciuto a Roma come il palazzinaro rosso; fu il primo, persino, ad avere un visto di ingresso per gli Stati Uniti, precisamente nell’Aprile del 1978, durante il sequestro Moro), durante una Visita di Stato negli Stati Uniti, Henry Kissinger (notorio e viscerale anticomunista e già Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Richard Nixon e poi suo Segretario di Stato, nel cui ruolo continuò con la Presidenza di Gerald Ford), lo apostrofò, pubblicamente, in tal modo: «My favorite communist (il mio comunista preferito)!»
Di rimando Re Giorgio, come certa stampa lo aveva incominciato a definire un po’ per la sua straordinaria somiglianza con Umberto 2º di Savoia, un po’ per la sua aristocratica, fine, bohémien eleganza, oltre che per la stessa indole del soggetto a essere, come tutti i veri comunisti italiani, autorevole e un cincinin autoritario, seppur tentando di mellifluare siffatto aspetto), pur abbracciandolo calorosamente, gli ribatte (in perfetto inglese, di cui era padrone): «Sorry, former communit (Prego, ex Comunista)!»
Ecco, in questo aneddoto potremmo raffigurare un paradigma, sotto forma di sineddoche, della vita di Napolitano che, non per essere detrattori o spregiativi, potremmo definire come il tutto nel suo contrario, insomma accostarlo alla mitica e subliminale attitudine Dorotea qualora costui fosse stato un democristiano come noi.
Intendiamoci, la vita politica del defunto Presidente emerito è stata intensa, soddisfacente, persino strabiliante (difatti ho descritto bene le sue prime volte tralasciando un incarico di cui accennerò meglio di seguito, cioè la Presidenza della Camera nel biennio golpista ’92/’94), anzi una vera e autentica luminosa costellazione di rigore e successo, sotto le insegne di un rispetto, non solo formale, bensì incarnato (poiché sentito!) delle stesse Istituzioni di cui era alla guida o di cui fece parte.
Difatti (e qui si ritorna alla sua esperienza di Presidente della Camera) nel febbraio del 1993, su mandato disposto dalla Procura di Milano (retta da un misterioso Francesco Saverio Borrelli) e con atto firmato da uno dei Sostituti Procuratori, ovvero Gherardo Colombo, un ufficiale della Guardia di Finanza si presentò a Montecitorio chiedendo l’acquisizione degli atti relativi al finanziamento dei Partiti (azione assolutamente pleonastica, poiché l’informazione di specie era una cosa che si poteva acquisire senza una simile, proditoria e intimidatoria intemerata, proprio perché era tutto pubblico) e il Segretario Generale della Camera avvisò Napolitano che a sua volta ebbe la giusta reazione: negò (in base alla legge e alle norme costituzionali) l’ingresso delle Forze dell’Ordine nel Palazzo di Montecitorio, in assenza dell’autorizzazione dello suo stesso Presidente (Napolitano per l’appunto) e convocò d’urgenza l’Assemblea al fine di rendere edotti gli Onorevoli Deputati delle sue determinazioni prese in piena libertà (seppur a fronte di indebita ed esterna pressione di un potere dello Stato).
Così come vi è da ricordare il dolore che ebbe per la morte del suo Consigliere Giuridico Loris D’Ambrosio (a cui pure io ero molto affezionato e ricordo con immutata stima), soprattutto per averlo visto consumarsi sulla scorta di assurdi sospetti, da parte di una certa magistratura palermitana, la quale indagava non su notitiae criminis, bensì suggestioni sensazionalistiche e prive di fondamento (vi è, difatti, una sentenza definitiva, passata in giudicato dalla stessa Cassazione) ovvero il procedimento meglio noto come Trattativa Stato Mafia.
Si arrivò, in tale abomino giuridico a intercettare al telefono non Totò Riina e Bernardo Provenzano, bensì proprio Napolitano (al tempo coevo Presidente della Repubblica e quindi anche Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura) e Nicola Mancino (suo vice al CSM e già Ministro dell’Interno ed ex Presidente del Senato).
Da lì ne discese la richiesta di acquisire agli atti la telefonata stessa (cosa tra l’altro illegale, nella stessa attività intercettativa), che non era nemmeno un elemento essenziale, poiché non disvelava nulla, non foss’altro perché a parlare erano proprio le parti lese da questa presunta (e non vera!) azione terroristico stragista dei picciotti corleonesi. E si arrivò finanche a interrogarlo al Quirinale, tanto per dimostrarti stare la schizoide sclerotizzazione dell’azione giudiziaria sugli altri poteri costituzionali.
Ma Napolitano, affrontò anche la crisi finanziaria internazionale che rischiava di travolgere l’Italia, poiché i poteri forti stranieri avevano deciso di far sloggiare Silvio Berlusconi e il Governo da lui presieduto: vi era la tempesta dello spread e le tensioni sociali, oltre alla stessa maggioranza del Cavaliere che si stava sfarinando.
Sia il Presidente francese dell’epoca Nicolas Sarkozy, sia la Cancelliera Angela Merkel, chiamarono Napolitano per fargli presente le criticità italiane e le perplessità estere: la Grecia e la sua crisi potevano essere importate persino in Italia!
Infatti, sul punto, sono testimone indiretto, poiché accompagnai in quello stesso periodo (durante una visita di Stato, e ciò è persino agli atti della mia farlocca ma preconcettualideologica vicenda, tipica di un manettarismo di cui ci si dovrà interrogare e a norma di legge porre rimedio, in modo lecito e per come chiede persino l’Europa), al Quirinale Amine Gemayel.
Il clima, in quei giorni era pesante, teso e tutto faceva sì che si avvertisse una sensazione da fine impero: Napolitano resse bene, strutturato come era (dal punto di vista politico) una situazione da far tremare le vene e i polsi, pur se con il senno di poi, la scelta di Mario Monti non fu la migliore, pur essendo l’unica possibile e praticabile.
A ogni buon fine vi sarebbe ancora tanto da dire su questo gigante, come la battuta di Emilio Colombo allorquando Napolitano venne eletto Presidente della Repubblica: «Napolitano un cosacco al Quirinale? È una tale scemenza che non va commentata, perché non ho mai conosciuto un non comunista come lui.»
Si badi bene, pure Emilio se ne intendeva!

Foto: wired.it


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