Matrimonio nell’Antica Grecia: tra riti, leggi e tradizioni
La Repubblica dei Locresi di Epizefiri
Di Giuseppe Pellegrino
Se agli albori dell’Umanità, rectius della società arcaica, per dare retta ad Aristotele, il matrimonio altro non era che la forma di una compravendita della sposa,(e, a dire il vero, il fatto trova conforto con le usanze degli altri popoli indo-europei, a partire dalle indicazioni di Omero – sempre lui), formalmente l’unione coniugale aveva origine, come in epoca classica, dalla promessa del padre della fanciulla di dare la propria figlia in sposa alla persona da lui prescelta. Certo, in occasione delle nozze lo sposo faceva doni alla sua futura legittima compagna di letto, ma non era, sembra, il prezzo della sposa, ma solo un sistema di prestazioni reciproche. Perché a sua volta, il padre della sposa dava alla figlia i doni che hanno la dolcezza del miele, i quali servivano a indicare che la fanciulla non era uno scarto e che la sua famiglia non la rifiutava, ma semplicemente la donna andava incontro all suo destino di fattrice. Si trattava, in definitiva, della dote paterna che serviva anche a temperare il fatto che la donna era esclusa dalla successione dei beni paterni, che toccavano solo ai figli maschi. La funzione della donna era solo quella di procreare, tanto che si usava dire che il padre consegnava la donna allo sposo perché la arasse¸con richiamo a Persefone, nel senso di fecondare e la famiglia non poteva ostacolare questa sua predestinazione. Predestinazione tanto forte che la donna che moriva zitella veniva chiamata sposa di Ade (re degli inferi). Certo il valore tra i doni dello sposo, che dava anche armenti, e quello del padre non era uguale, ma la forma corrispondeva a sostanza.
Dunque il matrimonio non come rapporto di coppia o come istituto naturale su cui si fonda la famiglia, ma come modalità di regolazione di rapporti sessuali al fine procreare figli legittimi, gli unici che avevano diritto alla successione e in grado di assicurare una cittadinanza integra. Ergo, in epoca arcaica, ma anche classica, ogni società generava dei meccanismi che permettevano la riproduzione attraverso generazioni al fine di conservare nel tempo l’identità famigliare e di ghènos. Ne conseguiva che l’unione legittima tra un uomo e una donna non era un fatto privato, perché aveva effetti sociali ed economici. Per cui la disciplina, per così dire, legale delle modalità del matrimonio erano attente a rispettare le tradizioni e la cultura di un popolo. Si avevano così due parametri di riferimento indivisibili tra loro: la nazionalità e la legittimità dell’unione. I due parametri nel tempo furono esasperati da due nuove realtà, anche esse concomitanti: La nascita delle poleis e la concomitante scomparsa della regalità, che favorirono società chiuse e, pur nella diversità, anche regole comuni e fisse. Di fatto avveniva che un matrimonio suggellava un’alleanza tra famiglie, che se erano numerose, ricche e potenti, incidevano notevolmente in pòlis di piccole dimensioni.
Vi era quindi una propensione a favorire il matrimonio, in quanto solo una prole sana e abbondante poteva assicurare una polis forte. Di contra il celibato era combattuto in modo aggressivo, tanto da autorizzarsi le donne in occasione di feste di natura femminili a trascinare i celibi attorno all’altare, e lì, fustigarli, affinché questi, per evitare nuovamente un trattamento tanto umiliante, si accostassero alle nozze alla giusta età. In epoca fascista lo stesso intento veniva assicurato dalla cosiddetta tassa sul celibato, che oltre che in Italia fu anche introdotta in Germania, dove è perdurata fino agli anni ‘80.
Alla fine di tutto l’excursus si capirà che Locri non rispettava neppure sotto questo aspetto la generale tradizione greca e magno greca, sia nel rito sia anche nella terminologia. Già nel trattare il matrimonio si è accennato alla ritualità a Locri e anche alla terminologia.
In linea generale, è bene premettere che il reato di adulterio viene trattato come reato di violazione di domicilio (oikòs) e contro la polis (commistione del ghenos). Ciò, in tutta la Grecia: da Gortina fino ad Atene.
Poiché tutto parte da Gortina, l’excursus sulla punizione dell’adulterio presso i Greci parte dalla regolamentazione della polis micenea: è da questa che occorre partire. L’adultero sorpreso in flagranza era condannato a pagare una pena/multa, che era determinata preventivamente dallo Stato, che valutava la gravità dell’offesa in base alla posizione giuridica e sociale del reo (se libero o schiavo), la posizione della vittima (se donna di un libero, di un apetaìros), cioè di un uomo che non apparteneva ad alcuna eteria, o di uno schiavo, e alle circostanze nelle quali era stato commesso il reato.
L’infedeltà femminile era un fatto gravissimo, perché metteva in discussione la certezza della prole legittima, tanto che poteva provocare la esclusione dalla vita pubblica, se l’adultero uomo non libero o di una etnia diversa. Per non parlare dell’aspetto religioso. Eppure la punizione della donna era solo il ripudio o la restituzione dei doni ricevuti dal marito per comprare la sposa. Nient’altro.
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