Di Luisa Ranieri
Ogni sabato pomeriggio, dopo la scuola, Papà ci caricava sulla sua Fiat Seicento e ci portava a trovare il Nonno a Satriano.
Era una routine che noi bambini accettavamo non sempre di buon grado perché significava lasciare i nostri amichetti di Locri e, soprattutto d’estate, il nostro mare mentre i cugini di Satriano nello stesso periodo scendevano a godere dello Jonio sulle favolose spiagge di Soverato.
Seguivamo immusoniti la litoranea Jonica fino alla svolta dell’Ancinale, dove nella nostra mente avveniva il miracolo: entravamo nel Mito lungo le rive di quel famoso fiume dove e da dove – ci aveva assicurato il cuginetto Pino – nell’antichità entravano oppure uscivano le possenti navi da guerra dei Romani, reduci oppure pronte alla battaglia. Non avevamo mai capito per quale o da quale battaglia, ma le vedevamo risalire e ridiscendere il corso del fiume, vedevamo i Romani muniti di luccicanti corazze e bronzei scudi e questo nutriva la nostra fantasia di ineffabili attese e aspettative.
E poi su, su, verso la collina tra campi gialli di stoppie d’estate o verdeggianti nelle altre stagioni finché, superata la pericolosa curva detta ’u giruni, ci arrendevamo al fatto che ci eravamo lasciati definitivamente il mare alle spalle e stavamo per entrare in un altro mondo.
Pochi metri dopo l’ingresso del Paese, superato il Convento delle Monache, ci dirigevamo sicuri verso la Ruga di Puccio, cioè verso lo slargo dove sorgeva l’imponente (per allora) Palazzo di nostro Nonno, circondato dalle casette degli altri abitanti.
Anche a proposito di quel Puccio ci eravamo chiesti più volte, però invano, chi fosse o fosse stato quell’uomo così importante da ricevere l’alta onorificenza dell’intitolazione di un intero rione, ma, come per l’Ancinale, l’ignoranza dei fatti, invece che sminuire la nostra fantasia, la ingrandiva a dismisura.
E quel nuovo mondo ci accoglieva con un odore e una musica che mai più avremmo incontrato nella nostra vita: l’odore caldo di una segheria, tanto simile a quello del pane appena sfornato e la musica del taglio del legname che ha fatto da leit-motiv a tutti i nostri soggiorni lassù.
E, già da quel primo impatto olfattivo, capivamo la differenza dell’ambiente che ci avrebbe accolto su quella collina rispetto a quello, che ci stavamo lasciando alle spalle, dei paesi che si affacciavano sul nostro mare.
Esso, infatti, con lamontagna circostante ci accoglieva con i profumi intensi dei suoi abeti, dei suoi larici, dei suoi faggi, dei suoi lecci, delle sue querce e con il verde intenso dei suoi boschi.
Le sue terre non erano più bianche, ma rossastre di polveri che dal Sahara erano state trasportate lì dal vento chissà quanti e quanti secoli prima.
Eravamo passati dalla nostra Bianca Montagna Aspromontana a quelle catene montuose della stesso massiccio situate oltre il passo della Limina, talmente ricche di alberi di legname da avere da esse mutuato il nome di Serre, zone che davano lavoro ai boscaioli e alle segherie di tutto il circondario.
Tratto da Sulla scacchiera della vita, pagine 13-14