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Costume e Società

L’arte della seta calabrese tra antiche produzioni e giovani speranze

Di Davide Codespoti

Quando si parla della seta, a molti viene in mente immediatamente la Cina, il massimo produttore mondiale di questo raffinato prodotto che ha dato anche il nome a un itinerario commerciale (la Via della Seta), che partiva dal Paese del Dragone e giungeva fino in Europa, conosciuta fin dal tempo dell’Impero romano.
Già allora questa rotta transcontinentale era molto remunerativa per i cinesi, che vendevano ai romani, attraverso la mediazione dei mercanti persiani, tessuti di seta in cambio di grandi quantità di oro e di argento. Dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente, la Via della Seta perse parte della sua importanza anche a causa dell’instabilità politica della regione, squassata da invasioni straniere o guerre civili: recuperò la sua importanza solo con la cosiddetta Pax mongolica, ossia l’ordinato sistema di controllo instaurato dall’Impero mongolo, che si estendeva dal Mar del Giappone fino ai confini della Polonia. Sulla rotta commerciale non viaggiavano solo merci, ma anche idee: fu proprio grazie ai frequenti scambi commerciali con i cinesi che in Europa giunsero nuove invenzioni fondamentali, come la polvere da sparo, la carta e la stampa a caratteri mobili, poi perfezionata dal tedesco Gutenberg.
Pochi però sanno che la seta fu prodotta anche in Europa grazie a un vero e proprio atto di spionaggio industriale, compiuto nel VI secolo dall’imperatore bizantino Giustiniano; il sovrano stava cercando nuove rotte commerciali che aggirassero l’ostacolo rappresentato dall’Impero persiano, che sbarrava la strada al commercio diretto con l’Impero cinese, e inviò emissari lungo due direttrici diverse: a nord, attraverso la Crimea, e a sud, lungo il corso del Nilo e il Regno di Axum. Il suo progetto funzionò: dalla rotta settentrionale tornarono due monaci, che portarono i bozzoli del baco da seta nascosti in rami di bambù (questo perché la lavorazione della seta era considerata un segreto di Stato, la cui violazione comportava la pena di morte).
L’imperatore ordinò di piantare i nuovi bachi da seta nei domini bizantini occidentali, in particolar modo in Calabria, che divenne famosa per la produzione della seta, tanto da introdurre il nuovo prodotto manifatturiero in tutta l’Italia e, successivamente, in Europa. Il centro calabrese più importante della lavorazione serica divenne Catanzaro, famosa anche per la raffinata fabbricazione di velluti, damaschi e broccati. Infatti, nel corso del XV secolo, l’industria serica catanzarese riforniva quasi tutta l’Europa dei suoi prodotti, venduti in grandi fiere a mercanti spagnoli, veneziani, genovesi, fiorentini e olandesi.

La città divenne la capitale europea della seta, con un grande allevamento di bachi da seta, dai quali provenivano perfino tutti i pizzi e i merletti utilizzati in Vaticano. La sua crescita fu riconosciuta formalmente persino dall’imperatore Carlo V d’Asburgo, che nel 1519 consentì a Catanzaro di istituire un consolato dell’artigianato della seta, incaricato di regolamentare e controllare le varie fasi di una produzione che fiorì per tutto il Cinquecento.
Purtroppo, nel corso del ‘600 e del ‘700, la produzione del baco da seta in Calabria subì un lento e inesorabile declino sia a causa della generale crisi economica e sociale che sconvolse il Regno di Napoli, del quale la regione faceva parte, sia a causa dei sistemi di produzione ormai antiquati, che non riuscivano a reggere il confronto con le neonate industrie seriche della Lombardia e del Piemonte.
Infatti la gelsibachicoltura andò via via scemando sempre più, poiché gli allevatori non riuscivano più a pagare le pesanti tasse e gabelle, imposte rapacemente dagli agenti del fisco regio, e anche perché i metodi di coltivazione erano superati: basti pensare che Francesco Maria Galanti, in un suo rapporto sulle condizioni della Calabria dopo il disastroso terremoto del 1783, riportava che i contadini calabresi non potavano gli alberi dai rami secchi, rendendo di conseguenza improduttiva l’intera pianta. In questo modo, la produzione della seta calabrese andò sempre più rarefacendosi, fino a scomparire del tutto già agli inizi dell’800.
Questo, almeno, fino alle soglie del XXI secolo, quando tre giovani calabresi (Giovanna Bagnato, Miriam Pugliese e Domenico Vivino) hanno coraggiosamente deciso di investire in Calabria, riscoprendo l’antica arte della produzione serica attraverso la fondazione di una cooperativa, chiamata Nido di Seta, le cui attività sono incentrate sulla filiera della gelsibachicoltura e sulla valorizzazione delle ricchezze del territorio. Dopo gli studi i tre giovani sono tornati per restare nella propria terra, a San Floro, un piccolo borgo alle porte di Catanzaro, dove hanno impiantato un’attività imprenditoriale che ha consentito di recuperare antiche tradizioni locali e di sviluppare nuove competenze.

Miriam Pugliese, Giovanna Bagnato e Domenico Vivino

Il processo di lavorazione rispecchia i canoni tradizionali: i tessuti vengono prodotti su antichi telai a 4 licci sui ritmi cadenzati dallo scorrere della navetta. Tutti i prodotti, realizzati in seta greggia, rispettano il concetto di sostenibilità ambientale. Il filato viene successivamente tinto con prodotti naturali e autoctoni, come piante spontanee, il papavero, la robbia, il mallo di noce, il morus nigra, la ginestra, l’uva Cirò, le margherite di campo e la cipolla di Tropea. Il processo di estrazione della tintura è realizzato in laboratorio direttamente dai ragazzi: ogni elemento tintorio ha il suo processo di estrazione e in base al pigmento vengono fatti dei trattamenti per ottenere il colore desiderato, fino a 25 sfumature diverse.
Gli sforzi della cooperativa di Giovanna, Miriam e Domenico hanno inoltre permesso il ripristino del Museo della Seta di San Floro, da tempo preda dell’incuria, allestito dai tre giovani all’interno delle mura del Castello Caracciolo, che mira a valorizzare il settore turistico e le attività svolte dalla cooperativa stessa. Una sezione del museo è dedicata al gelso, al baco da seta e alle fibre naturali, con un ricco assortimento di campioni di seta colorati; inoltre, è possibile vedere da vicino i telai, antichi e non, su cui i ragazzi tessono i preziosi manufatti. Il museo è la testimonianza del legame tra agricoltura e cultura quale elemento vincente del marketing territoriale e volano di valorizzazione delle risorse rurali. Proprio per la realizzazione di questo progetto i tre ragazzi calabresi hanno ricevuto il premio Bandiera Verde della Confederazione Italiana Agricoltori.
Proprio dalla spinta innovativa e multifunzionale è nato l’ultimo progetto della cooperativa Nido di Seta: l’Accademia della seta. Si tratta di corsi sulla trasformazione serica e tinture naturali, con l’intento di tramandare alle nuove generazioni questa tradizione agricola. L’intento è quello di riattivare i mestieri antichi, ricreando una filiera della seta calabra e, di conseguenza, un nuovo indotto di lavoro, sia dentro la cooperativa sia nelle altre province calabresi. Si sono già avute molte adesioni ai corsi, perfino da Argentina, Slovenia e Nord Europa.
In questo modo, probabilmente, l’antica arte della seta calabrese tornerà a fiorire e tornerà a portare ricchezza economica e culturale alla Calabria, una terra che ne ha urgente bisogno.

Redazione

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