Una favorevole beffa del destino
Stasi XIV - Francesco Rossi non può immaginare che la “perdita di tempo” dovuto al salvataggio di una famiglia calabrese sulla strada verso la sua terra natia possa rivelarsi una fortuna per la sua impresa commerciale. È giunto dunque il momento di conoscere meglio le persone a cui ha salvato la vita e che gli stanno dando ospitalità.
Di Francesco Cesare Strangio
Le luci del nuovo giorno presero gradualmente il sopravvento sulle tenebre. Francesco Rossi, abituato ad alzarsi come sempre di buon’ora, si affacciò alla finestra e vide uno spettacolo sensazionale, gli alberi indistinti che aveva scorto di notte non erano altro che aranci. Decine di ettari adornavano il territorio.
In un istante gli balenò l’idea di non andarsene di lì se non avesse preso accordi ben precisi per accaparrarsi il frutto. Si preparò in fretta e furia, scese giù per vedere e toccare quelle meraviglie.
Erano stracolmi di piccoli frutti. Da una stima approssimativa, pervenne alla conclusione che quell’azienda avrebbe potuto soddisfare oltre il 30% della quantità che gli occorreva.
Stava per partire in quarta, quando si ricordò del principio fondamentale per le trattative: non dimostrarsi mai impaziente di chiudere, facendo capire alla controparte l’essenzialità del prodotto, e non avere mai fretta. A quel punto divenne chiaro che sarebbe rimasto ospite almeno per un giorno. Mentre osservava le piante, gli andò incontro Giuseppe che lo salutò con calore.
La prima cosa che disse Giuseppe fu: «Ho passato una notte da incubo. Quel precipizio ha dominato i miei sogni. Mia moglie si è agitata per tutta la notte, per poi prendere sonno poco prima dell’alba. Che Dio me la mandi buona, ho l’impressione che prenderà un esaurimento».
«Il miglior rimedio è non pensarci!» rispose Rossi; mentre i suoi pensieri erano altrove, ammirava con meraviglia l’aranceto che si mostrava ai suoi occhi.
Le foglie erano di un verde vellutato, tanto da sembrare il frutto di un sogno: accarezzate dalla tenue luce dell’alba, iniziarono a scintillare come le stelle di mezzanotte.
L’incidente e il suo pronto intervento si dimostrarono provvidenziali. A volte il destino ci pone dinanzi degli eventi che sembrano remarci contro per poi, alla luce dello svilupparsi degli eventi, si rivelano tutt’altro.
Adesso stava tutto nella sua capacità di relazionarsi con gli ospiti.
Preso dai pensieri, non si accorse che dietro di lui stava arrivando l’anziano che lo aveva accolto quando era arrivato.
L’uomo salutò i due e Rossi rispose con cordialità e rispetto. Gli chiese da dove arrivava.
L’anziano rispose: «Jimma i vidimu l’impiantu pacchì ‘ndaiu l’impressioni ca non funziona a doviri (Sono andato a dare un’occhiata all’impianto d’irrigazione perché ho l’impressione che non funzioni a dovere)». A quel punto doveva lasciare da parte l’italiano con l’accento milanese: gli toccava rispondere in lingua calabrese, anche se l’accento di Reggio Calabria era ben diverso di quello lametino.
Rossi iniziò a parlare nella stessa lingua, ma stette bene attento a non usare vocaboli o modi che potrebbero apparire scortesi.
Quando si rivolse all’anziano, non sapendo come chiamarlo, lo chiamò “Baruni” (Barone), che nella dialettica della lingua calabrese parlata stava a indicare la signoria su quei luoghi (“u ‘gnuri”).
Quando Rossi parlava metteva in atto gli insegnamenti di sua nonna, che gli raccomandava: «Quandu parlati ca genti, dunatisi sempri nu titulu supiriuri a chigliu chi ’ndannu, mai mi sminuiti (Quando parlate con la gente, dategli sempre un titolo superiore a quello che hanno, non sminuiteli mai)».
Il suo modo di parlare, garbato e rispettoso, lo fece entrare nelle grazie del padrone di casa.
Intanto i famigliari di Giuseppe, uno alla volta, si svegliarono tutti e uscirono nel cortile ove presero posto sotto un grande albero di gelso i cui rami, ornati dalle verdi foglie, avvolgevano con la loro ombra un largo raggio del cortile. Sotto quell’ombra risaltava un selciato di pietra irregolare, che fungeva da pavimento: il colore e l’usura del materiale lapideo dimostravano di essere lì da lunghissimo tempo.
“Chissà quante persone – si domandava Rossi, – dapprima bambini e poi vecchi, hanno abitato qui?”
La frenesia delle città non aveva sfiorato mai quei posti incontaminati dal bisogno crescente del profitto sfrenato; lì regnava da sempre il lavoro e la serenità.
Quella proprietà, di grandezza considerevole, venne in successione ad Antonio dal padre del suo genitore.
Ai primi anni dell’800, in quel feudo, lavorava sua nonna: era una giovane donna di una bellezza straordinaria, tanto che il vecchio signore di quel feudo l’aveva soprannominata “la Venere della baronia”. Il figlio s’innamorò della giovane donna, ma quello era un amore che non poteva avere un futuro. La famiglia feudataria aveva concreti interessi di fondersi, attraverso un matrimonio, con il feudo confinante.
Nacque così un amore segreto tra il figlio del signore e la figlia dei servitori, che lavoravano da generazioni presso di loro. Da quell’amore venne al mondo un bambino.
Come sempre la natura fece il suo corso e quel figlio, crescendo, assomigliava sempre di più al padre, tanto che sembravano due gocce d’acqua.
Come per tutti, il tempo concesso al signore del feudo volse al termine.
Poco prima di esalare il suo ultimo respiro, fece chiamare il frutto dell’amore segreto e l’unica figlia che aveva avuto dalla moglie a conseguenza di una malattia che dopo il parto la rese sterile.
Foto: aziendaagricolasecci.it