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Costume e SocietàLetteratura

Gli sprovveduti

Di Luisa Ranieri

Spulciando nella libreria di Pancallo, un’estate, a Locri, Mara trovò dei libretti sulle fiumare dell’Aspromonte.
Fatti bene, con illustrazioni affascinanti, indicazione di percorsi e caratteristiche del territorio, l’attrassero subito e decise di acquistarli.
C’era, in uno di essi, l’indicazione del percorso della fiumara del Bonamico, con la notizia della nascita, a seguito della frana del 1972, di un lago , il Costantino, destinato presto a scomparire per la portata eccezionale dei detriti della fiumara stessa. Un lago intorno al quale si erano create una flora e una fauna del tutto particolari, un lago alla fine di un percorso tutto contornato da oleandri.
Mara decise che doveva assolutamente vederlo, anche perché le era rimasto l’amaro in bocca da quando aveva perso il trekking organizzato dai suoi amici archeologi lungo l’altra meravigliosa fiumara del territorio reggino, quella dell’Amendolea.
E di trekking nel nostro territorio non se ne organizzano molti, perché la nostra regione è di una bellezza infinita, ma anche di un’infinita disorganizzazione in quasi tutti i campi.
E non c’è montagna più sconosciuta dell’Aspromonte, dalla bellezza più spettacolare, ma anche dalle strade più dissestate e dalle cartografia più confusa.
Tornando al Bonamico, che scorre vicino a San Luca, Mara propose il trekking a suo marito, a sua sorella e suo cognato, che accettarono per l’indomani mattina.
Solo che l’indomani mattina nessuno si presentò in orario, nessuno organizzò i panini o le borracce d’acqua. Facevano fatica persino a decidere di partire.
Nello scintillio del sole del Sud forse sono vere le parole di quella canzone napoletana che dice:

E poi cu’ stu’ sole, stu’ sole luciente… e chi vo’ fa’ niente e chi vo’ fa’ niente…

“Sole narcotizzante” diceva Giuseppe Tomasi di Lampedusa e, forse, non aveva tutti i torti.
E poi, forse, si immaginavano, per arrivare al lago, una bella strada asfaltata con, alla fine del percorso, un bel ristorante pieno di tutte le leccornie del posto.
Comunque, verso le 11:00, riuscirono finalmente a partire.
A sorpresa, si aggregò anche Alex, che si mise le scarpe da tennis.
Il dettaglio non è da poco, perché tutti gli altri, da sprovveduti, si accingevano ad affrontare la cosa con le ciabatte del mare, per fortuna almeno di gomma, mentre il marito di Mara indossava addirittura gli zoccoli di legno che di solito usava per casa. Solo la sorella aveva con sé una bottiglia di acqua e, così abbigliati e sprovvisti di panini o quant’altro, senza alcuna idea del cammino e delle sue difficoltà, il gruppetto si incamminò.
Lasciarono la costa e si inoltrarono su per la montagna.
La vallata del Bonamico si presentava, dopo San Luca, enorme ed enormemente pietrosa. La percorsero per un tratto in macchina, poi si inoltrarono a piedi convinti, come aveva detto loro un abitante del posto, che dopo una ventina di minuti avrebbero trovato il lago Costantino.
E, invece, di ore ne passarono quattro, su per una pietraia quasi invalicabile e impressionante nella sua bellezza, con massi enormi, medi e piccoli di tutti i tipi e forme, dai marmi bianchi e verdi ai graniti rossi o rosa, alle miche luccicanti gialle o grigie.
Mara non conosceva certo le varietà delle pietre, ma vedeva che erano le stesse che ritrovava, rese più piccole e levigate dall’azione del tempo, sulla spiaggia del mare antistante e che spesso  raccoglieva con infinito amore e gratitudine per la bellezza del creato.
Erano le pietruzze che si era tante volte portate su al Nord e con le quali aveva ricoperto le fioriere delle sue piante sul balcone, le pietruzze che ogni mattina, prima di andare nella sua scuola a insegnare, si affacciava a salutare come se fosse ancora là, davanti alla distesa azzurra del suo Mar Ionio.
Camminavano lentamente con le loro ciabatte sull’aspra pietraia, mentre Alex, con i suoi splendidi 23 anni, se n’era andato veloce in avanscoperta.
Ma dov’era quel lago che doveva essere a 20 minuti di distanza dalle macchine? E dov’era la famosa frana?
A un certo punto si accorsero che quelle piccole pietre che ogni tanto vedevano messe le une sopra le altre non servivano ad altro che a indicare le tappe del cammino da fare e cominciarono a seguirle.
Strano a dirsi, sotto quel sole a picco non avevano sete e non passò loro per niente l’idea di tornare indietro: ognuno di essi era preso dall’accecante bellezza dell’ambiente, con gli oleandri rosa che spuntavano ad addolcire la scena, qualche mucca al pascolo (sopra il greto la montagna era verdissima) e dei maiali selvatici che quando vedevano il gruppetto battevano in ritirata.
Il tempo stava rallentando e, acquistando un’altra dimensione, quella del mito e della fantasia… sì, perché capirono bene come i Greci avessero immaginato in luoghi come quelli la presenza di Dei, Ninfe e Fauni…
Non poteva essere che così: erano luoghi davvero abitati da divinità pastorali, luoghi silenziosi di silenzi distesi nella luce trasparente, luoghi di profumi misti e selvaggi, luoghi di tempi senza tempo, luoghi divini.
Ed ecco, improvvisa, una voce di acqua che scorreva…
Andarono più veloci e rimasero stupiti davanti al torrente che scendeva impetuoso con le sue rapide gorgoglianti tra gli alberi che formavano una galleria fresca e accogliente.
Ma da dove era spuntata tutta quell’acqua se fino ad allora avevano camminato solo su pietre asciutte?
Sono queste le fiumare calabresi: asciutte (all’apparenza: l’acqua scorre sotto) d’estate ed impetuose d’inverno.
Una meraviglia della natura.
La sorella, che si era messa il costume, si fece addirittura il bagno, il cognato e Mara se ne stettero a lungo al fresco con i piedi in ammollo, mentre il marito (l’ingegnere milanese!) approfittava della sosta per leggersi il giornale e Alex se ne andava veloce più su perché a quel punto il lago non poteva essere lontano.
E tornarono poi a camminare finché il lago non apparve loro davvero, verde e calmo, ai piedi della paurosa frana che aveva  portato giù mezza montagna.
Non c’era nessun ristornate, naturalmente, ma qualcuno aveva costruito là intorno il posto per dei picnic. Loro non avevano portato niente da mangiare, ma non avevano fame.
Mara si sdraiò all’ombra perché le facevano male gli occhi per la troppa luce. La sorella, medico, si prese affettuosamente cura di lei e anche Alex, di solito parco nei gesti, le fece una carezza piena di amore. Era un miracolo del posto o dell’affetto di loro due se il mal di testa le passò e Mara si rimise subito in piedi?
Allegramente i nostri cominciarono a mangiare l’uva della vigna accanto che, senza recinzione, qualcuno aveva piantato lassù. Mai gustata uva più buona e dissetante.
Ma il pomeriggio era già inoltrato e, se avessero impiegato altre quattro ore per il ritorno, si sarebbero ritrovati presto al buio.
Si misero subito in cammino.
Il posto era tale che invitava alle riflessioni e al dialogo Mara e Alex, lo spirito più libero di tutti loro, il più sensibile ai silenzi e alle voci della natura.
Si deve venire in certi posti per ritrovarsi persone autentiche, prive di tutti gli orpelli e le sovrastrutture con cui ci copriamo e in cui ci nascondiamo nella vita.
E, forse, il loro venire lassù, privi di tutto, di acqua e di cibo, con le ciabatte del mare, vestiti solo di sole e di luce, nascondeva questo bisogno di autenticità e di ricerca di se stessi.
A un certo punto la sorella, che era andata in avanscoperta, cominciò a gesticolare: c’era una strada spianata dove era più facile camminare… la si sarebbe potuta addirittura percorrere in macchina per un certo tratto e loro, da veri sprovveduti, non se ne erano accorti e avevano camminato per quattro ore all’andata e quasi tre ore al ritorno per le vie più impervie.
Ma non c’era tempo per il rimpianto o il rincrescimento, perché l’Aspromonte li stava salutando con uno dei suoi tramonti più belli e con le nuvole rosse e viola che correvano veloci verso il mare.

Tratto da In forma di parole, Franco Pancallo Editore 2006

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