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Costume e Società

18 ottobre 1951: il cielo rosso che annunciò la fine di Africo

Di Francesco Maviglia

Trascorsi settant’anni dal flagello che causò per gli africoti l’abbandono del paese vecchio, è possibile a distanza di tanto tempo, valutare meglio quello che il popolo di Africo ha dovuto affrontare dopo l’ottobre del 1951.
Per capire i vari percorsi e le ricadute conseguentemente alla decisione di lasciare Africo, è opportuno rievocare l’evento alluvionale che ha causato la frana scivolata rovinosamente sulle ultime case del paese.
Cercare di immaginare, con il supporto delle testimonianze di coloro che si trovavano in quei luoghi nei giorni di pioggia incessante, che aveva iniziato a cadere dalla tarda mattinata di domenica 14 ottobre fino giovedì 18, il terrore vissuto dalla popolazione, vecchi e bambini, malati e non, isolati in quelle valli, ci aiuta anche a comprendere quali fossero le condizioni generali di Africo e della frazione Casalnuovo in quegli anni.
Dopo i primi giorni di pioggia, alcune case iniziarono a essere invase d’acqua e fango, chi era dentro usciva a cercare riparo presso abitazioni di parenti o amici che sapeva fossero più sicure.
Altri andarono dentro la chiesa San Nicola Pontefice che era stata ricostruita in cemento alcuni anni prima, fino a riempirla.
Costantino Romeo descrive con precisione quanto ad Africo durò la pioggia e lo racconta:

La sera del 13 ottobre avevo finito di seminare in una contrada e mi avvicinai a un’altra molto distante. Il tempo era incerto e la strada lunga da percorrere e in molti punti pericolosa. Dopo 4 chilometri mi fermai a dormire (in un giaciglio di fortuna n.d.r.). La mattina, appena la luce del giorno rischiarò la vallata, mi avviai al paese, ma mentre aumentava il giorno, aumentava anche una nebbia mai vista. Ogni tanto cadeva una leggera pioggia. Arrivai a casa alle 9:30. Mi recai da un parente chiedendogli un asino per trasportare 50 kg di grano per la semina. Dovetti rinviare il viaggio al giorno successivo per il tempo cattivo. Ma il giorno successivo peggio ancora, rinviai al martedì (16 ottobre n.d.r.).
Dalla montagna cominciarono a cadere alcune rocce, mettendo in allarme tutti gli abitanti. Un albero di ciliegio si sradicò e fu portato a valle dalle acque insieme ad altri detriti e otturò il ponte (voluto da Umberto Zanotti Bianco n.d.r.) vicino al Municipio.
Ormai il paese era chiuso da ogni parte da rocce e detriti. Per fortuna il ponte si spezzò e la maggior parte delle acque presero il proprio corso, altrimenti saremmo finiti a mare tutti quelli della parte bassa, assieme a quelli della chiesa, che era piena di gente che implorava aiuto al Signore.
Continuò cosi fino alla mattina di giovedì (18 ottobre n.d.r.), poi il cielo diventò rossastro e la pioggia si rinforzò di intensità. Eravamo chiusi di sopra dalle rocce, che avevano sepolto le case; a ovest dove si era rotto il ponte, la valle sembrava un fiume, a sud eravamo privi come sempre di ogni comunicazione: ormai aspettavamo che la valle si unisse al fiume con tutta la chiesa e scomparissimo per sempre.
Ad un tratto il cielo si rasserenò e si cominciò a vedere il sole, anche se malinconico. Proprio allora cominciarono i boati dalle montagne, ma intanto aveva cessato di piovere e si cominciò a respirare l’aria di salvezza.
Iniziarono i conti delle case sepolte, di quelle portate via dalle acque, degli ovili e del bestiame scomparso. Alcuni operai aprirono un passaggio in via San Sebastiano, poco dopo il ponte. Da quel varco riuscimmo a far passare molti vecchi e le suore.
La forza pubblica non permetteva a nessuno di rimanere nelle case pericolanti. Ci accatastarono tutti nella contrada Campusa.
Ci riunimmo quella sera in molti, per decidere cosa fare, per trovare coloro che si trovavano dalla parte opposta del fiume. L’unico ponte di nuova costruzione (sul vallone Casalnuovo, anch’esso costruito dall’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, n.d.r.), non esisteva più. Tagliammo dei pini grandi che, cadendo sulla sponda opposta, fecero da ponte. Un mio zio ebbe danni ancora più gravi: il fiume si portò via la casa, il mulino, il giardino, senza lasciare traccia. Si salvarono grazie a una sua bambina che si era spaventata, che piangeva sempre e tutti la accompagnarono da una sua zia (a Casalnuovo n.d.r.), dove passarono la notte. Un altro si rifugiò in un ovile, poi, tornado a casa, vide che la valle non c’era più. A un tratto sentirono un boato e videro quella intera valle assieme al gregge che pascolava camminare verso il fiume, che si otturò e subito si fece un mare. Le povere bestie, consapevoli del pericolo, giravano attorno, mentre lo spazio diminuiva sempre di più, scomparvero a turno, otto o dieci alla volta, nel fiume.
Vedemmo salire una squadra di uomini: erano dei lavoratori friulani (si trattava di boscaioli n.d.r.) che andavano in cerca del cadavere di un loro compagno, caduto nel torrente.

Il ponte voluto dall’ANIMI in costruzione sul Vallone Casalnuovo

Redazione

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