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Costume e Società

Le gelsominaie di Brancaleone

C’erano una volta le gelsominaie, a Brancaleone. Potrebbe iniziare così il racconto di una storia meravigliosa che avuto il suo massimo splendore negli anni ’50/’60. È stato un periodo aureo ai fini occupazionali per la comunità di Brancaleone e del suo comprensorio, in quanto aveva legato la sua economia alla coltivazione del fiore del gelsomino. Era un fiore profumatissimo e delicato, che per le sue peculiarità era riuscito a valicare i confini nazionali e affermarsi con grande successo in tutti i mercati internazionali. Pino Fava, scrittore e giornalista di Brancaleone, ha riproposto, qualche tempo fa, su Facebook, la storia del gelsomino e le dinamiche a esso legate, riuscendo ad attirare l’attenzione di alcuni nostalgici visitatori che navigano sul sito. Il post di Fava, autore tra l’altro di un volume dal titolo Profumo di Gelsomino, era ben costruito e dava la possibilità agli amanti del social network che hanno vissuto quell’epopea di tuffarsi nei propri ricordi di gioventù. Scriveva a proposito Fava:

La gelsominaia, cioè l’addetta alla raccolta del fiore, era una donna fra i quindici e i cinquanta anni di età, di media statura, anche alta o bassa. Ma comunque molto resistente alle intemperie. Non era molto curata fisicamente, ma vi erano donne molto belle. Per l’azienda lavoravano da tremila a quattromila persone nel periodo fra maggio e ottobre di ogni anno. Raggiungevano nel territorio fra Condofuri e Locri, ma anche più lontano, il posto di lavoro, cioè Brancaleone, su grossi camion, intonando la calabresella e altre canzoni in voga a quei tempi. In pratica Brancaleone, nelle ore mattutine, fra le due e le quattro, era inondato dalla musica e dagli odori gradevoli dei gelsomini. La vita delle gelsominaie era sacrificata, con un guadagno basso, 280 lire al chilo di fiore nell’anno 1964 dopo varie lotte sindacali. Vi erano donne che raccoglievano fino a 11 o 12 chili al giorno. Questa contadinella affrontava fatiche inimmaginabili, oggi. Le sofferenze giornaliere la plasmavano, la formavano. Stava a piedi nudi, a contatto con la terra e lavorava incessantemente dalle due del mattino fino alle dieci, cioè otto ore. Raccoglieva il fiore con mani dolci, delicate e vellutate, poi, quando aveva sete, chiamava i portatori d’acqua, in genere ragazzi/e fra gli otto e i quattordici anni, che immediatamente l’andavano a dissetare. Tutto si svolgeva nell’ambito di quei cinque ettari di terra isolata, perché tutta quella zona umida e infestata da insetti era considerata malarica. Immaginate un po’ quante morivano per questa terrificante malattia. Le lotte sindacali erano, dunque, all’ordine del giorno.

Infine, Fava, facendo un paragone con le mondine emiliane postava:

[La gelsominaia] non fu fortunata come le mondine emiliane, che furono esaltate dal Neorealismo cinematografico italiano. Nasceva, cresceva, amava e moriva in silenzio e non inquietava nessuno. Sapeva convivere con la sofferenza e nei tormenti ritrovava sé stessa.

Quando il delicato profumo del gelsomino iniziò a essere prodotto chimicamente, questa coltivazione a Brancaleone sparì e, con essa, finì la storia delle gelsominaie.
Sono pagine di storia che, a distanza di tanto tempo, fanno capire ai nostri giovani com’era difficile vivere in un mondo dove niente ara dato per scontato. Secondo il parere di un’anziana gelsominaia, basta pensare che per arrivare a totalizzare un chilogrammo del prezioso fiore era necessario raccogliere circa 7.300 fiorellini.

Redazione

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