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Costume e SocietàLetteratura

La corona luminosa

Le cronache di Atlantidea II

di Luisa Totino

Due giorni dopo Vera era nella sua stanza, sul letto, a guardare il soffitto, la finestra leggermente aperta, quasi a non voler far fuggire quel dolore che inumidiva i suoi occhi, quegli occhi che avevano visto sua nonna morire. Non aveva pranzato e il suo stomaco era lì a ricordarglielo, ma non aveva la forza di sfamarsi: più forte della fame erano i ricordi del rapporto sereno con nonna Lena, che in quel momento si mescolavano al chiacchiericcio proveniente dal piano di sotto, delle persone che erano giunte in visita alla sua famiglia, com’era usanza nei giorni seguenti le esequie.
Quell’atmosfera cupa e surreale, però, venne interrotta dal suono del cellulare sul comodino. Vera si voltò verso quell’aggeggio infernale che si era permesso di profanare quel momento, ma il suono continuava e continuava, come un goccia sulla testa, e allora decise di vedere chi fosse. Guardò il display e vide il nome di Bea, la sua migliore amica, che dopo il funerale non era più riuscita a parlare con Vera.
Il cellulare, ora, suonava, ma Vera non accennava a rispondere; finalmente, dopo tanto, la comunicazione si aprì e sentì la voce di Vera: «Ciao Bea, scusa, ma non sono in vena di parlare.»
E Bea rispose: «Non volevo disturbarti, ho chiamato per chiederti se ti andava di fare quattro passi, magari al Lungomare, così ti distrai un po’.»
Vera rimase qualche secondo in silenzio, sapeva che la sua amica avrebbe insistito all’infinito, era una battaglia persa, e allora rispose: «Va bene Bea, ci vediamo alle otto? Passi tu? Andiamo a piedi, però, mi va di camminare.»
Bea, felice di aver raggiunto lo scopo rispose: «Ok, a dopo.»
Non appena chiuse la comunicazione Vera sentì la madre che la chiamava a scendere di sotto. Scese nel salone/taverna della sua casa, punto di ritrovo della sua famiglia, e vide i suoi genitori armeggiare con degli oggetti sul grande tavolo in noce massiccio.
«Che c’è?» chiese Vera.
E la madre rivolgendosi a lei rispose: «Abbiamo racimolato tutte le cose appartenute alla nonna, se vuoi puoi prendere qualcosa, per ricordarti di lei.»
Vera si avvicinò al tavolo, guardò gli oggetti e subito l’occhio cadde sul cofanetto dagli strani simboli, lo stesso che nonna Lena aveva aperto davanti a lei prima di morire.
«Prendo questo» disse Vera, agguantò il cofanetto e fece per andarsene, ma la madre la fermò: «Non prendi nient’altro? Dovrò dare tutto via, così, non posso tenere tutto.»
«Fai come vuoi» disse Vera alla madre e salì nella sua stanza. Si mise a sedere sul letto e aprì il cofanetto per prendere la pergamena, ma non la trovò. Tornò di sotto di volata a chiedere spiegazione ai suoi.
«Cosa ne avete fatto della pergamena dentro il cofanetto?»
Il padre di Vera, vista la preoccupazione della figlia, disse: «Quel vecchio pezzo di carta? Pensavo fosse inutile e l’ho gettato… io non sapevo.»
Vera guardò il padre con delusione e amarezza e si precipitò a guardare nel mastello della carta. Rovistò freneticamente e finalmente la ritrovò, spiegazzata, ma integra. Vera tornò nella sua stanza, pensando al padre e ripetendo sottovoce: «Non capisce niente. Decide senza chiedere, come sempre.»
Una volta in stanza, appoggiò la pergamena sul letto e pensò a prepararsi a uscire con Bea, che stava per passare. Una volta pronta, prima di uscire dalla stanza, si voltò a guardare la pergamena, pensando che magari poteva condividere con Bea quello che le aveva narrato la nonna: dopo tutto era la sua migliore amica, non l’avrebbe presa per pazza.
Prese la pergamena e la mise nella borsetta, intanto arrivò un messaggio di Bea: era sotto ad attenderla. La serata era bellissima, tiepida, con un cielo limpido, trapuntato di stelle, che sembrava parlassero con il loro luccichio. Il Lungomare locrideo era sempre stato un luogo di ritrovo per la cittadinanza, specie nel periodo estivo. A Bea e Vera piaceva passeggiare tra la gente, fare le vasche, come si era soliti chiamare l’andare avanti e indietro per tutto il percorso del lungomare.


Edil Merici

A un certo punto Vera si rivolse all’amica: «Bea, sediamoci, devo parlarti.»
Si sedettero su una panchina nell’ampia piazza, dove imponente e leggiadra si ergeva una statua della poetessa Nosside.
«Dimmi Vera» disse Bea, un po’ preoccupata. Vera, allora, tolse la pergamena dalla borsetta. Non era totalmente sicura di volerlo fare, ma doveva raccontare tutto a qualcuno o sarebbe esplosa e decise di fidarsi della sua migliore amica.
Bea guardava con curiosità la pergamena e Vera disse: «Bea, devo raccontarti una cosa. È qualcosa che mi ha narrato mia nonna prima di morire, mi ha giurato fosse tutto vero, ma io devo confrontarmi con qualcuno e ho deciso di farlo con te.»
E Bea rispose: «Io ti ringrazio Vera, ma ora raccontami tutto, cominci a farmi preoccupare!»
E Vera cominciò a raccontare di quella straordinaria terra di Atlantidea, della sua prosperità, di come gli abitanti vivessero in armonia con le diverse divinità: i celesti, gli acquatici e i terreni; del Gran Consiglio di Altinium e della prima Regina di Altea, bellissima e magnanima. Bea ascoltava tutto con sguardo attonito, misto di meraviglia e incredulità.
Alla fine Vera disse: «Mia nonna non è riuscita, però, a terminare la storia, se ne è andata prima di poterlo fare».
E Bea: «Ma ti avrà dato qualche indizio o informazione per avere delle prove di tutto questo.»
Vera stette un po’ pensierosa, poi rispose a Bea: «Sì, oltre alla pergamena mi ha detto che mi comportavo da vera regina e che mi sarei dovuta recare ai resti del tempio di Persefone, agli scavi archeologici, e dirigermi alla colonna del tempio, di non aver paura, perché ero la discendente… e poi non ha finito la frase.»
Vera si rattristò subito, ma Bea le disse: «Vera, se tua nonna ha insistito per raccontartelo, allora vuol dire che c’è qualcosa di importante dietro, che ci costa andare agli scavi, così per controllare, magari non succede nulla e ce ne torniamo, ma almeno ti tranquillizzerai. Sai, le persone anziane, quando arrivano al termine della loro vita, possono avere dei momenti in cui straparlano.»
Mentre Bea finiva di dire ciò, si sentì un clacson suonare, Vera e Bea si voltarono e videro il loro amico Mattia che le salutava dal finestrino della sua auto. «Ciao, ragazze, che fate? Volete venire a fare un giro?»
Bea, allora disse a Vera: «E se ci portassimo una presenza maschile? Forse sarebbe più sicuro!»
Allora Bea si alzò e si diresse verso l’auto: «Mattia, aspetta, ho qualcosa da chiederti» e rivolgendosi a Vera: «Dài Vera, andiamo, possiamo fidarci di Mattia, gli racconteremo come stanno le cose, capirà!»
Vera stava per alzarsi dalla panchina per raggiungere l’amica, quando la corona sul capo della donna nell’effigie si accese di rosso. Vera, spaventata, cominciò a chiamare Bea, che intanto era arrivata all’auto di Mattia: «Bea! Bea! Vieni qui!»
La gente cominciò a voltarsi a guardarla e lei fu presa da un incredibile disagio. Non solo, alle sue orecchie giunse come un canto lontano di sirene, che proveniva dalla statua di Nosside.
Vera, allora, andò sotto la statua e alzò lo sguardo verso il suo viso, all’improvviso gli occhi si accesero di luce abbagliante e un voce, che sentiva solo lei, le disse: «Vera, è giunto il tempo! Devi raggiungere Atlantidea, presto! Non indugiare, abbiamo bisogno di te!»
Terminate quelle parole, gli occhi della statua si spensero e così anche la corona nell’effigie. Vera rimase bloccata, come marmo, cercava di trovare mentalmente una spiegazione a quanto era successo. Intanto Bea l’aveva raggiunta.
«Vera, cosa è successo? Sei bianca in viso!»
Vera rispose atterrita a Bea: «La statua… la statua mi ha parlato!»
«Andiamo con Mattia, così ci racconterai tutto» disse Bea. E mentre si allontanavano, dietro la statua di Nosside, una figura oscura aveva sentito i loro discorsi e nell’ombra le seguì con lo sguardo…

Continua…

Redazione

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