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Costume e Società

Da donna di casa a donna in carriera: la condizione femminile nella nuova Africo

Di Bruno Palamara

Qualcuno, e non siamo certo noi, potrebbe eccepire che la donna africese non si è mai ribellata a una vita fatta solo di grandi sacrifici e di poche gioie. Il fatto è checonosce solo quella vita! Non chiede diritti, perché non conosce diritti (“È stato sempre così!”)! Non conosce il treno, perché non ha mai visto un treno! Non conosce il mare, perché non ha mai visto o toccato il mare! Non conosce perché non si è mai scolarizzata! In una parola, le manca la conoscenza: senza di essa rimane, inevitabilmente, statica e prigioniera di barriere insormontabili.
A tutto questo aggiungiamo l’isolamento plurisecolare cui da sempre è condannato il paese per la sua assurda ubicazione in mezzo a monti e colline (“il più isolato paese dell’Aspromonte”), privo di qualsiasi struttura stradale che possa collegarlo in qualche modo con il mondo civile e capiremo la sua atavica e triste condizione di donna rassegnata e immersa nel passato senza alcuna speranza di futuro migliore.
Ma, come nella Storia spesso accade, da un evento altamente negativo e devastante qual è stata l’Alluvione del 15 ottobre 1951, nasce e si sviluppa, inevitabile e naturale, un percorso che cambierà completamente, e in positivo, il corso e la qualità della sua stessa esistenza, perché se da un lato quella traumatica tragedia, umana e ambientale, porta, per tutti, lutti e sacrifici d’ogni genere, dall’altro, e per la donna africese in particolare, rappresenta l’inizio di un iter che, attraverso varie vicissitudini, anche travagliate, la farà pervenire al suo attuale status di donna al passo con i tempi.
Il decennale esodo della popolazione, profuga nei vari centri della provincia reggina, da Palmi a Gambarie, da Reggio Calabria (Archi, Trabocchetto, Lazzaretto…) a Bova Marina (Seminario…) e la relativa discesa in marina aprono alla donna africese le porte di un mondo nuovo, portandola, per la prima volta, a confrontarsi con il mondo esterno e facendole prendere coscienza del suo anche essere sociale.
Le incessanti iniziative di lotta per il nuovo paese la vedono partecipare attivamente, e con efficacia, agli scioperi di quegli anni problematici: si dispone sempre in prima fila al fine di proteggere gli uomini dalle prevedibili manganellate delle forze dell’ordine, spesso dispiegate in tenuta bellica. Ancora oggi si ricordano avventurosi episodi di cui rende attiva e agguerrita protagonista di quel mitico periodo di lotta di popolo con anche denunce e fermi di polizia a suo carico, sopportati con estrema fierezza.
Il paese nuovo, costruito sulla costa, in marina, apporta una grande e sana ventata di novità nella vita di una popolazione dalla mentalità tradizionalmente rivolta ancora al passato.
La donna africese usufruisce in primis dei benefici apportati dal nuovo corso che prende il paese, non a caso chiamato Africo Nuovo. La casa, spaziosa e accogliente, gli elettrodomestici e gli altri moderni marchingegni, frutto del boom economico di quegli anni, affrancano la donna africese dalle grandi fatiche giornaliere del passato. Non va più alla comune fontana del paese. Ora ha l’acqua corrente in casa! Non porta più in testa fasci di legna per accendere il focolare. L’abitazione è dotata di energia elettrica! Non si reca più alla fiumara per lavare i panni. Ora, a casa, ha la lavatrice! Radio e televisione ora le portano in casa il mondo intero, informandola e acculturandola!
Comincia a vestire alla moda! Scopre e indossa i pantaloni, simbolo dell’orgoglio e della predominanza virile! Inizia a instaurare un nuovo e diverso rapporto con i suoi giovani coetanei e, finalmente, è libera di scegliere l’uomo della sua vita, mettendo definitivamente alla porta ’ccippu e ’mbasciaturi!
In questo importante periodo carico di grandi cambiamenti e novità – anni ’60-’70 – varie sono le esperienze di vita intensamente vissute dalla donna africese che concorrono in maniera determinante alla sua crescita personale, umana e politico-sociale.


Edil Merici

Unica e irripetibile e, per certi versi, per lei esaltante, è la non mai dimenticata stagione delle gelsominaie! Sentiamo ancora nelle orecchie il loro scanzonato vociare alle due di notte nelle piazze del paese, impazienti di salire su quei camion di fortuna che le avrebbero portate nei campi di raccolta del gelsomino nei vicini centri di Brancaleone e di Bruzzano.
Un lavoro duro e faticoso, con la schiena ininterrottamente piegata e i piedi nell’acqua, effettuato sempre in un clima cameratesco. La gelsominaia africese da tutta se stessa in questo lavoro, ben consapevole che esso rappresenta, nella maggioranza dei casi, l’unica fonte di reddito per la famiglia. Che fatica! Quanto impegno, tenendo conto che il lavoro viene pagato, rigorosamente, a peso e che per fare un chilo di gelsomini servono diecimila fiorellini! Lei riesce a raccogliere, mediamente, non meno di dieci chili, la più veloce, perfino, dodici, tredici chili, di quel delicato e profumato fiore!
Per di più, partecipa in maniera attiva agli scioperi per il miglioramento delle condizioni di lavoro, formando e plasmando quel carattere battagliero che dimostrerà, in seguito, in tutta la sua positività, nelle già imminenti rivendicazioni di piazza di quegli anni a venire.
Non meno importante è l’altra esperienza da lei vissuta in quegli anni di sistemazione e di adattamento alla nuova realtà del ricostruito paese. Colonia, Monaco di Baviera, Wolfsburg per tanti sono solo nomi di città tedesche. Non per la donna africese che, a sentirli, ricorda uno dei più difficili periodi della sua vita. Il paese, attanagliato da una dilagante e drammatica disoccupazione, vede partire con la valigia di cartone in mano verso città straniere centinaia di lavoratori, padri di famiglia e giovani ventenni, in cerca di un’occupazione che possa alleviare le già misere condizioni economiche delle famiglie.
La donna africese prende decisamente in mano le redini della casa, ergendosi risolutamente a severo custode dell’unità famigliare, vestendosi in tutto e per tutto da capofamiglia e gestendo al meglio l’educazione dei figli e… le puntuali mensili rimesse bancarie provenienti dall’estero, utili e necessari per il decoroso mantenimento della famiglia.
È, però, la scuola l’elemento principe, lo snodo, il punto di svolta e di non ritorno dal quale spicca il volo l’emancipazione della donna africese, il suo affrancamento da un passato che l’ha vista sempre soccombente! In quegli anni ‘60, portatori di grandi e importanti novità in tutti i campi, ella, infatti, riesce finalmente a strappare con i denti a genitori difficili e tradizionalisti la possibilità di scolarizzarsi, abbattendo definitivamente quell’atavica teoria maschilista in quegli anni ancora dominante: “La donna deve stare a casa ad accudire i figli!”E così frequenta regolarmente le scuole del paese, prima la Scuola Media, poi le Scuole superiori, soprattutto Le Magistrali. Si diploma e si laurea. È maestra, è avvocato, è architetto, è medico!
Oggi, venti anni dopo l’inizio del terzo millennio, la donna africese può considerarsi appagata, se non, addirittura realizzata: lavora, è economicamente indipendente, viaggia, decide, è libera nel modo di vivere e di pensare, può scegliere fra carriera e famiglia, essere donna di casa o donna in carriera! Non per niente si fa apprezzare in ogni campo, dal sanitario all’amministrativo, dal giudiziario al campo educativo, facendo giustizia di tutti gli archetipi e stereotipi negativi che, immeritatamente, hanno accompagnato la sua storia.
A noi piace terminare queste poche righe, citando il grande William Sheakespeare:

La donna uscì dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere calpestata, non dalla testa per essere superiore, ma dal lato per essere eguale, sotto il braccio per essere protetta, accanto al cuore per essere amata!

Foto: utilitymagazine.it

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