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Costume e Società

Mamme di Calabria

Di Mario Nirta

Troppo spesso, troppo spesso, per le vie del paese passavano mamme che, in sconnesse bare di legno tenute in equilibrio sulla testa, e seguite da parenti e amiche, trasportavano i figlioletti al cimitero. Difficilmente Dio o il fato possano imporre prove più dolorose. E chi ci è nato, in quel paese, quel dolore se lo trascina dietro e non si vergogna di piangere per quegli angioletti morti senza nemmeno aver aperto le ali.
Solo per poco tempo, coi bambini, nasceva la speranza. Poi la malaria ne reclamava il tributo, invano contrastata dal chinino appena giunto, cui pochi riconoscevano la conclamata efficacia perché “quando il destino chiama, è inutile opporsi”. E quando il fetore dell’ultima mietitrice invadeva la casa, nelle lugubri e strazianti nenie notturne delle mamme i neonati si sublimavano in invincibili cavalieri di battaglie già perdute in partenza. E i loro estremi vagiti n’erano le risonanze portate da lontano dal vento nero delle morti ingiuste.
Nelle notti luttuose dei piccoli paesi sperduti tra le montagne aspromontane, le grida angosciate di chi piangeva l’incombente scomparsa dei figli laceravano il manto d’oscurità cosmiche e si stagliavano come impalpabili statue di un dolore teso a sfidare i secoli e che nemmeno tutte le eternità riusciranno mai ad esorcizzare. Le mamme dell’afflizione diventate Furie, Erinni e, smarrito ogni senso della pietà, chiedevano a un Dio spietato con loro di esserlo con tutti. E in risarcimento per la morte del figlio ne pretendevano quella di tutti gli altri. E così il pianto di Rachele alla ricerca dei corpicini dei suoi figli in quell’orrenda notte di Palestina ritrovava una disperata eco tra gli angusti vicoli del borgo.
Le eroiche madri dei paesi isolati e spenti con i loro lamenti avevano il coraggio di sfidare Dio e di rinfacciargli le patenti ingiustizie. O, almeno, ostentavano l’onesta pudicizia di non tacerle. La primordiale etica delle madri disperate, pervenute al punto limite in cui il dolore d’altro non si pasce ormai che di se stesso, rifiutava l’ipocrita acquiescenza dei rassegnati e condannava al disprezzo ogni trascendente consolazione. Alimentati dall’atroce linfa di continue sconfitte, i loro odi s’indirizzavano contro le ingiustizie eterne, coscienti di un aldiquà troppo crudele per incrementare speranze di aldilà diversi, migliori o, perlomeno, meno disperanti. E allora non rimaneva che il pianto. Il pianto cupo, monotono, denso e avvolgente delle sconfitte mamme del Sud, che solo in superficie si tingeva di toni diversi. Poi, intorpidite sulle proprie pene, sprofondavano in un disperato e disperante monologo con il defunto, e invocavano angosciate “gioia, gioia mia”, quel figlio diventato la sorgente d’ogni loro dolore. E lo ricordavano negli anni, lo rammentavano alle compagne di sventura, ai propri figli tanto infelici da essere sopravvissuti, ai coetanei, a tutti. E quel piccolo morto diventava il più vivo, perché dotato di quella vita eterna scaturente dal cuore di donne nate perdenti, reiette, delle intoccabili, quasi, negli imperscrutabili disegni divini e per le quali già l’accettazione della vita si trasfigurava in un atto sovrumano d’eroismo.
E per questo il loro pianto diventava una lugubre nenia sommessa, sempre uguale e spesso tanto muta da divenire assordante. Non era una sola donna a piangere, ma intere generazioni, cui era stata negata persino la promessa della speranza. Perciò, commiserando nelle proprie persone tutte le donne passate e future, il loro pianto poteva diventare un fiume, un mare, un oceano, eppure non gli riusciva di toccare il cuore rupestre di divinità lontane, egoiste, crudeli, o forse semplicemente indifferenti.
E, consce dell’impotenza del loro dolore, le mamme del Sud non si mettevano in croce solo per farsi vedere da lontano, ma per dimostrare a chi le aveva private dei figli, d’essere capaci anch’esse del supremo sacrificio pur di salvarli. E così sfidavano Dio; e lasciandosi morire pensavano di ucciderlo. Umiliandosi, lo umiliavano; maledicendo se stesse e il loro destino, lo maledicevano. E quella, che agli occhi estranei delle persone civili poteva apparire una farsa e indurre al riso, era invece una tragedia più grande di quella del Golgota, perché senza speranza di resurrezione.
Il fioco lucore della lucerna, dallo stoppino ormai esausto, soffondeva d’esangui tormenti le misere pareti. E al posto del bambino agonizzante, nella rudimentale culla si dondolava, stanco, cereo, sfatto il colore acre della sofferenza. E la notte successiva minacciava di ripetere quella già trascorsa… e nei secoli, lo stesso canto della stessa mamma, lo stesso pianto dello stesso bambino laceravano notti senza tempo e senza speranze d’alba.

Foto: angeloanna.wordpress.com

Redazione

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