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Costume e Società

‘A vucata e ‘u sapuni i casa

Di Mimmo Catanzariti

C’è un passato recente e un passato remoto, con tracce ancora vive nella memoria dei nostri anziani, nelle testimonianze scritte, nelle vecchie foto e negli oggetti che ancora oggi sono di uso comune.
La vita nei centri rurali della Calabria era spesso dura, dettata dalle esigenze della terra e, tuttavia, la gente la sopportava e la viveva con amore e tenacia, accettandone tutti gli aspetti e le sfumature. Questa esposizione vuole avere la peculiarità di far conoscere e provare a spiegare i saperi antichi che si sono quasi persi del tutto nel vortice della modernità. Non vuole essere una rievocazione dei vecchi tempi, ma si vuole solo trasferire alle nuove generazioni alcuni antichi saperi. La continua ricerca delle antiche tradizioni, il cercare di far parlare chi non c’è più, di far testimoniare chi non pensava di entrare nei libri di storia e proporre le piccole e grandi ritualità, e principalmente il vissuto della gente. Con senso pratico e concreto cercheremo di far capire i procedimenti, le tecniche, i passaggi del lavoro, le difficoltà, i riti e le nostre tradizioni popolari. Cercheremo di approfondire alcune tecniche di pulizia che si usavano prima dell’introduzione dei detersivi, dei saponi e dei detergenti sintetizzati chimicamente.

‘A vucata

Fino alla metà del secolo scorso, le donne, per lavare i panni, dovevano recarsi alla fiumara. La fiumara era un’importante risorsa per la gente comune, e anche per la donna calabrese in veste di lavandaia. La donna faceva infatti prima il prelavaggio a mano col sapuni i casa e, successivamente faceva il bucato. Era, quella, una attività in cui c’era bisogno di concentrazione e di molta attenzione. Per fare questo era necessaria una cesta di vimini dalla forma arrotondata, situata sopra a dei mattoni o delle pietre pulite in cui la biancheria, già insaponata, leggermente sfregata e torciuta con le mani, veniva sistemata all’interno della cesta seguendo la forma concentrica della cofina. La parte superiore della cesta e tutti i panni venivano poi ricoperti da un telo di tessuto forte detto cinnerali, ricavato da un vecchio lenzuolo o tessuto a mano in modo doppio, fatto di canapa o di cotone pesante; sopra il cinnerali veniva posto uno spesso strato di cenere di 10 centimetri circa, detto cernuta, cioè passato al setaccio e, a questo punto, sul tutto veniva versata l’acqua bollente. L’ultimo panno serviva da filtro a quest’acqua che impregnava quelli sottostanti. Era qualcosa di magico e strano, un misto di acqua e cenere che alla fine faceva diventare bianca e profumata la biancheria di tela tessuta al telaio. Il liquido che scolava dal fondo della cesta era chiamato in dialetto liscìja,cioè la lisciva. Era molto prezioso, perché possedeva delle capacità detergenti elevate. Veniva raccolto e messo da parte per lavare i capi in lana e i panni colorati e delicati, ma anche per fare altri lavaggi come stoviglie, pavimenti, oggetti vari. La massaia, con il primo liquido che usciva, essendo più sporco, lavava gli stracci. Col successivo, più chiaro, lavava i panni colorati e le maglie di lana, che poi sciacquava alla maniera della biancheria; puliva e disinfettava i letti, spesso invasi dai parassiti e, a dosaggi diluiti, puliva persino i capelli, per renderli lucenti e morbidi.


Edil Merici

‘U sapuni i casa

Nelle famiglie non si buttava via niente, tutto era importante. L’olio, per esempio, era sempre prezioso, anche quello fritto o andato a male o rimasto sul fondo dei recipienti in creta in cui si conservava. In uno di questi orci si mettevano da parte i residui di olio: servivano per il sapone. Anche le giarre, in cui restavano i residui dell’olio (murghi) erano una manna dal cielo per fare del buon sapone. Fare il sapone richiedeva una certa esperienza, perché non era facile lavorare e dosare bene la potassa (soda caustica), ingrediente essenziale per far solidificare il sapone e l’acqua occorrente, le dosi di solito erano un chilogrammo di soda e quattro litri di olio. Fare il sapone in casa era quasi un rito, a cui partecipavano non solo le donne della famiglia, ma spesso anche le comari e le donne del vicinato. Solo dopo molti tentativi, dopo anni di esperienza e molti segreti rubacchiati qua e là, facevano riuscire un buon sapone a una brava massaia. Il segreto era mescolare sempre e controllare il fuoco per regolare la cottura. Quasi sempre ognuna delle comari del vicinato diceva la sua; a volte c’era troppo potassu (troppa soda) e quindi c’era bisogno di altra acqua, o era lentu, cioè acquoso, e c’era bisogno di altra soda; in questo caso l’aiuto e i consigli delle comari e delle vicine era sempre ben accetto per la buona riuscita al primo colpo del risultato sperato. Prima di iniziare il procedimento della lavorazione del sapone, era abitudine diffusa benedire con formule di rito, allo stesso modo del pane, anche il composto che si andava a trasformare in sapone. Si tracciava il segno della croce e si buttava a volte anche un pugno di sale marino dentro il fusto o la cardara, pronunciando la frase: «Patri figghiu e spiritu santu ‘u poti crisciri n’attru tantu!»Appena il contenuto cominciava a bollire, si iniziava a versare piano piano la potassa, precedentemente sciolta in acqua fredda rimescolando di continuo con il bastone. Questa erogazione, sapientemente dosata, doveva avvenire a intervalli regolari e stando bene attenti a quando il liquido cominciava a rapprendere, altrimenti la massa per eccesso di soda si sdillacciava, cioè non coagulava bene. Mescolando continuamente avveniva la magia! Lo scuro colore iniziale, piano piano, andava schiarendo, e diventava un marroncino chiaro, terminando gradualmente in un bianco panna, quando il procedimento andava bene. Spesso il colore non era proprio chiaro, ma questo non era sinonimo di cattiva riuscita: infatti il suo dovere di sbiancare e fare schiuma il sapone lo avrebbe fatto lo stesso, anche se più scuro. Si capiva che il sapone era pronto quando, mettendo il mestolo o, spesso, il manico di scopa in legno con il quale si mescolava il liquido, al centro del composto, questi restava dritto e non scivolava di lato. Significava che la consistenza era quella giusta e assicurava una buona saponificazione. Se non era ancora solido, si lasciava riposare per altro tempo, prima di tagliarlo, ma se capitava che non quagliava voleva dire che qualcosa era andato storto e quindi andava stornatu,rifatto. Una volta tagliato a pezzi non restava altro che farlo asciugare fino a che diventava secco e leggero. Asciugando, di solito, si formava una patina di scaglie di soda luccicante, ma una volta stagionato non faceva più male toccarla, perché non era più caustica. Sul finire degli anni ’50, grazie anche all’avvento delle lavatrici, gradualmente l’usanza di fare il sapone in casa, come quella del bucato a mano, è andata scomparendo. Questa consuetudine, dettata dal bisogno e dalla necessità del risparmio, un altro retaggio della classe contadina e popolare sta per finire. Sopravvive oramai solamente in poche famiglie, aggrappate ancora caparbiamente e tenacemente agli usi e costumi antichi della nostra tradizione.

Redazione

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