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Costume e Società

L’apparizione dell’arte

Di Attilio Spanò

Esiste un legame inscindibile tra l’Uomo e una forza creatrice imperscrutabile, inconoscibile, inavvicinabile, utopisticamente comprensibile.
Ciò che cade sotto gli occhi dell’umanità, che siano essi della mente o del corpo, che guardino verso se stessi o si rivolgano all’infinitamente grande o infinitamente piccolo, è strettamente collegato al concetto di inizio. Ora questo inizio è affiancato, in maniera sempre impropria, da un altro concetto che, in questo caso, sfugge a qualsiasi comprensione della mente umana, perché supera la percezione dello scorrere e dell’accavallarsi degli eventi, ed è il concetto di eterno.
L’eterno è escluso dalla ragione; l’uomo ha la necessità di comprendere non solo chi è ma anche come e dove si trova; pertanto, la sua ricerca si muove necessariamente all’interno di spazi/luoghi che devono essere codificati, analizzati e non possono mai prescindere dal ruolo centrale dell’Uomo: un’inutile e limitatissima ricerca.
L’affiancamento improprio, però, di inizio a eterno, se da una parte porterebbe a una confusione sostanziale – e quindi non produrrebbe nulla di concreto, diventando una sorta di base errata di un sillogismo para-aristotelico – allo stesso tempo permette, agli spiriti più liberi, di elevarsi, di superare la banale razionalità scientista e affiancare a questi dogmi una ragione irrazionale.
È assolutamente necessario, quindi, concentrarsi non tanto sul come la volontà agente agisca, quanto sul perché essa senta la necessità di agire. Porre l’attenzione sul come l’azione della volontà si svolge nel tempo, significa spostare il ragionamento sull’accavallarsi degli eventi; ciò implica esaminare lo sviluppo della volontà da un momento iniziale verso un futuro, che scavalca necessariamente il contingente. Appare chiaro che una lettura in divenire della volontà creatrice, rivolta alle modalità dell’azione, e quindi comprensibile in base a leggi umane, non coglie le motivazioni dell’improvviso agire nel tempo: è possibile analizzare come l’atto creatore si sia sviluppato, ma non si ha alcuna possibilità di capire il perché. Ciò che si pone prima dell’inizio, e che solo dopo l’inizio e percepibile, è l’atto di volontà; un’apparente azione che, per essere tale, si svolge all’interno di ciò che può contenere e gestire l’azione stessa. Questo atto di volontà, quest’azione creatrice, non può essere solo delimitato in senso razionale attraverso il ricorso alle leggi fisiche, quantiche, all’ossessivo rivolgersi all’infinitamente piccolo e all’infinitamente veloce – il tempo riconosciuto dal momento in cui si passa da una schiuma primordiale alla nascita di qualcosa è di 10-35 secondi, e questa azione si conclude dopo 10-32, bisognerà aspettare addirittura altri 10-11 secondi per vedere gli effetti di questo Big bang, e così via – tutto ciò diventa banalità, interessante elucubrazione su tempi e dimensioni ma, non affrontando la comprensione delle necessità dell’inizio, non si rivolge alla realtà ontologica dell’eterno e non comprende il valore sostanziale dell’atto di volontà, scollegato da un luogo e da un tempo in cui agire. Ancora una volta, questa ricerca si concentra solo sulle modalità di espressione dell’azione stessa, ma non riesce ad affrontare il perché dell’espressione dell’azione; si deduce che l’atto di volontà creatrice diventa comprensibile solo se slegato dalle leggi umane e dalla supponenza scientista umana.
Indagare sul perché dell’atto di volontà può indicare una strada da percorrere per la comprensione della necessità dell’azione artistica. Tale necessità è la sola motivazione che permette all’uomo di realizzare manufatti il cui scopo sfugge all’utilità; l’azione artistica è solo frutto di una spinta creatrice, della necessità di esprimere lo spirito dell’uomo stesso, scevro dalle situazioni contingenti ma legato a esse da esigenze e sensazioni, spesso incomprensibili ai suoi contemporanei e, proprio per questo, pregni di quella contemporaneità molte volte poco vissuta e solo attraversata dalla gente comune.
Collegare l’opera d’arte alla società in cui l’artista vive non implica un necessario e visibile collegamento con l’ambiente in cui essa è stata prodotta: l’arte, come prima affermato, non è un documento storico, non ha il valore di un atto notarile, non racconta di una compravendita, non racconta di matrimoni o di terremoti; la specificità primaria dell’opera d’arte è quella di essere un documento di bellezza, un documento estetico, vivente per se stesso e presente a se stesso prima che a tutto.
Affermare, però, che l’arte non è un documento storico non significa scollegare l’oggetto artistico dal tempo in cui è stato prodotto, significa, più specificatamente, non leggere in esso la parte più superficiale del tempo in cui l’artista ha vissuto; ciò non implica che il momento in cui l’opera si è palesata non è visibile nell’opera stessa. Piuttosto ciò che è appare è il contrario, l’opera è talmente tanto contemporanea al tempo che l’ha prodotta da superare l’apparenza superficiale del tempo, per diventare lo specchio della profonda personalità del tempo stesso, in massima parte compresa e vissuta solo dall’artista, nella stragrande maggioranza dei casi non compresa da chi in questo spazio-tempo semplicemente sopravvive. Questa mancanza di comprensione del valore testimoniale dell’opera evidenzia la confusione comune tra artefice e oggetto compiuto. Non è un caso, infatti, che la popolarità dell’artista spesso sia indipendente dalla qualità dell’opera, che quest’ultima si nasconda dietro alla personalità del creatore, che la sua autonomia scompaia, divenendo solo frutto di un personaggio eccentrico.


Edil Merici

Ciò è strettamente collegato al rapporto che si intesse tra l’opera d’arte e il fruitore, e fa emergere come, in massima parte, la società sia incapace di leggere nell’opera lo specchio di ciò che realmente si sta vivendo in quel momento. Parafrasando le intuizioni di Gertrude Stein, la massa degli esseri umani, troppo impegnata a cercare ciò che ha senso, che serve, che ha un valore immediato, semplicemente attraversa il mondo che vive, tesa a recuperare e a dar valore a ciò che appartiene ad un tempo passato. Il risultato di questo atteggiamento rispetto alla contemporaneità è che la la società non vive il tempo che la accoglie, non lo comprende, non può conoscere le sue profonde contraddizioni, rivolgendosi continuamente a un tempo andato, porto e rifugio sicuro. Un atteggiamento del genere, porta a un vero e proprio iato tra la società e le espressioni artistiche del proprio tempo; uno iato che si palesa in un una perdita di fiducia negli artefici e artisti contemporanei e persino nella vita contemporanea, fino a una presa di distanza da essa, per rifugiarsi nell’inutile equilibrio piccolo borghese, fatto di regole e di limitazioni e cecità.
L’evidenziazione di questa distanza tra l’opera d’arte e la percezione di essa da parte del fruitore, nonché della confusione tra artista e manufatto, fa riemergere il problema del tempo collegato all’oggetto artistico. L’opera d’arte, non essendo sempre riconosciuta dal mondo a essa coevo, si palesa immediatamente come al di là del tempo e dello scorrere di esso, configurandosi come perennemente contemporanea.
Ora è proprio su questa permanenza della contemporaneità dell’opera d’arte che si gioca il rapporto tra essa, il tempo e il suo riconoscimento nel tempo. Il riconoscimento dell’artisticità di un’opera avviene, come si è appena visto, al di là del tempo storico in cui essa è stata prodotta; ciò implica che è necessario non individuare un primario valore documentario nell’opera, in quanto il suo riconoscimento avviene ogni volta che ci si pone davanti a essa, a prescindere dal legame o meno col tempo, il luogo e lo spazio in cui essa è stata realizzata. La possibilità di riconoscere continuamente l’artisticità dell’opera è fondamentalmente collegata alla sua perenne contemporaneità, l’opera d’arte non parla del tempo in cui è stata realizzata, ma parla nel tempo in cui essa viene riconosciuta; e non parla utilizzando parole arcaiche, incomprensibili e astruse, si esprime nel linguaggio comune.
Il linguaggio dell’opera d’arte certamente non è semplice né superficiale, ma non è un linguaggio antico, non ha bisogno di vocabolari o della conoscenza delle modalità espressive, è un linguaggio diretto, fondamentalmente estremamente chiaro: il problema è il ricettore non l’attore.
Asserendo che il legame con il momento storico in cui l’opera d’arte è stata realizzata, non è essenziale per il riconoscimento della stessa; che tale riconoscimento è indipendente dal tempo in cui esso avviene, come dal tempo in cui essa è stata realizzata; che il linguaggio utilizzato dall’opera non è arcano ma immediato, ecco che è necessario fare un salto di qualità a livello teorico e conoscitivo: l’opera d’arte incarna il concetto di eternità.
L’opera d’arte è oltre il documento, è oltre il tempo non essendo del tempo ed è dentro il tempo, essendo riconoscibile nel tempo contemporaneo, e il tempo contemporaneo è, alla fin fine, un tempo eterno.
In tal senso si può affermare che l’opera d’arte ha dalla sua parte il concetto di eternità; essa è forse quell’elemento umano che permette di superare la razionalità, nel momento in cui la profonda conoscenza dell’esistenza ha la necessità di elevarsi oltre la logica umana, volta alla ricerca del come e non del perché.
Davanti al palesamento dell’eternità ecco che il documento storico scompare per far spazio a quello estetico, che permette di entrare in contatto diretto con l’atto creativo, che rende visibile l’idea creatrice e ad essa si congiunge al di là del tempo, delle modalità, dello spazio. C’è da comprendere quali sono le ragioni che stanno dietro al concepimento dell’opera d’arte, e le ragioni fondamentalmente non ci sono, non almeno quelle che permettono di inquadrare l’opera nell’orizzonte dell’agire umano. Perché l’opera d’arte visibile è strettamente collegata al suo concepimento, non in senso temporale ma in senso ontologico, e se tra l’idea e il palesamento dell’idea nella materia non c’è alcuna differenza (tanto che il tempo stesso, pur intervenendo sulla materia non intacca la sostanza), ecco che l’opera d’arte è il collegamento tra l’uomo e il Creatore, mostra la più profonda parte sostanziale dell’essere umano, che è quella che la collega inscindibilmente a Dio.
Il salto di qualità, in questo momento, si palesa in maniera chiara: l’abbandono della ricerca razionale volta al come, per l’accoglienza della necessità di comprendere il perché, porta ad affermare che ciò che spinge l’uomo a creare non è altro che la volontà amorevole. L’azione artistica è profondissimo atto di amore, e l’opera creata è tale solo se palesa l’amore in maniera assoluta. Questo amore è l’Amore paolino della I lettera ai Corinzi, è l’Amore che crea, l’Amore che si sovrappone alla legge della ragione, l’Amore che genera amore, l’Amore che non inganna le azioni tutte dovute alla bellezza e tutte riconoscibili nell’Amore. Ed è allora proprio l’amore a generare bellezza ed è proprio la bellezza, non ingannando, non essendo codificabile e catalogabile, a identificare l’opera d’arte, a permettere il superamento della contingenza temporale, per raggiungere l’eternità della contemporaneità e contemplare le più profonde esigenze dell’essere umano.

Foto: sharing.school

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