Il Cannone di Cocca
Come il silenzio delle notti cosmiche, che debordando al luccichio delle stelle, emana tristezza, tanta tristezza emettono i ruderi di Pardesca vecchia. Un silenzio moltiplicato all’infinito, carico di di secoli, alimentato dall’arsura dell’estate, dalla rigidità dell’inverno, dallo stridio dei grilli e delle cicale e dal gracchiare delle cornacchie e dei corvi.
La solitudine di Zoparto
Laddove un tempo l’Ingegno umano eresse, pietra su pietra, maestose mura, dove la presenza dell’uomo esaltava la vita, dove la vita stessa si glorificava, ora non regna che la pace, la desolazione, la tristezza.
Tremendi ruggiti emette la terra e lamenti, e scricchiolii, e vagiti che che hanno messo in evidenza una grave colpa degli uomini…
Solitario, afflitto, tra le inule, i frutici, gli eucalipti e le pulicarie, ciò che ancora resta di Zoparto piange tristemente all’abbandono.
Un miscuglio tombale di piante, ruderi, tegole, mattoni, travi marce che, con il loro mutismo e il loro sottostare alle intemperie del tempo (testimoni di un’era passata) sembrano trovare la forza (con il proprio perenne esserci) di incolpare gli uomini della propria rovina. Perché una cosa è certa: se di leggerezza si trattò, fu umana e non divina. Uno sbaglio di calcolo. Una negligenza. Una trascuratezza delle scienze geomorfologiche e geometriche, vanto del sapere greco e romano. Una qualunque di queste sconsideratezze potè dare origine all’assurda sentenza che ne seguì.
Un errore costato, oltre alla vita di diverse persone, un disastro di non piccole proporzioni. Ma i greci non fallivano i loro calcoli. Non mancavano di prendere le giuste misure e di fare le corrette considerazioni. Per di più, qualora la cosa fosse sfuggila a loro, certo non sarebbe accaduto lo stesso ai romani. E gli abitanti di Zoparto discendevano sia dagli uni sia dagli altri.
Ma allora perché il paese fu costruito con frivolezza (forse troppa) sopra un cocuzzolo di terra calcarea? Perché la sua erezione non fu preceduta da uno studio accurato del terreno? Perché non furono prese le giuste precauzioni? Non riusciremo mai a dare risposa a tali domande.
Pardesca vecchia
Zoparto, oggi più comunemente conosciuto come Pardesca vecchia, sorse su un costone di argilla tra la fine dell’XI e l’inizio del X secolo dall’antica città greco-romana di Butroto, a nord di Palizzi, o dai superstiti di Naricia, insediamento greco che si trovava oltre la fiumara La Verde.
Situata a quasi 4 miglia dal mare, la cittadella, vanto della fascia ionica per le sue chiese, i suoi monumenti, la sua importanza pubblico-amministrativa, subì un duro colpo con il terribile terremoto del 1783. Ma, nell’arco di tempo che va dal 1784 al 1908 (quando, cioè, si verificò il sisma che distrusse Reggio Calabria e Messina decretando lo sfollamento definitivo di Zoparto) si verificarono delle tremende alluvioni che misero in ginocchio il centro abitato, facendo sì che la popolazione prendesse in considerazione un cambiamento di sede.
Fu, infatti, allora che iniziarono le prime evacuazioni e fu sempre allora che gli architetti si resero conto di quanto inesatti erano stati i calcoli che avevano convinto i propri predecessori a edificare il paese sul cocuzzolo di argilla calcarea.
L’abitato di Bianco
Un nuovo centro abitato cominciò dunque a sorgere a pochi chilometri di distanza, lungo il litorale ionico, in una zona piuttosto pianeggiante: il paese di Bianco. Il nome deriva dall’ubicazione del paese vecchio che, ubicato su un rilievo di argilla calcarea, era circondato da un paesaggio di colore bianco.
Nel 1951, mentre Bianco (che da quasi un lustro aveva aveva occupato l’area che, partendo dalla riva del mare si estendeva a sud fino a Zoparto, a ovest fino a Bombile e a nord fino al Centro Don Milani), brulicava di vita, si consacrava all’agricoltura, al commercio e alla pesca, una tremenda alluvione, oltre ai disastri idrogeologici provocati nell’antico borgo ormai totalmente sgombro, si lasciò dietro del veri e propri monumenti. Uno in particolare destò l’attenzione della gente per la sua mole, tanto da essere trattato come una sorta di opera scultorea popolare. Un monumento (se tale si può considerare) plasmato dalla forza della natura che, come un’enorme titano, vigile e attento, da oltre cinquant’anni, sta a guardia del paese di Pardesca.
Uno scherzo della natura
Stiamo parlando del Cannone di Cocca. Un reperto oggetto di leggende che non solo ne hanno alimentato la fama nel corso degli anni, ma lo hanno reso protagonista di una storia che inizia addirittura nei secoli precedenti alla sua effettiva formazione.
Si narra, infatti che, durante le incursioni saracene, tale scherzo della natura sarebbe stato scambiato dai pirati per un pezzo d’artiglieria di massima gittata e potenza, tanto che per un lungo periodo li avrebbe tenuti lontani dalla cittadella. Naturalmente è una fantasia sorta attorno al focolare acceso in una qualche notte d’inverno, ma resta il fatto che la la leggenda dona quel fascino in più al semplice pezzo di arenaria oggetto delle storie popolari. In somma, nonostante il cannone di cocca sia un modesto rilievo di argilla calcarea plasmato dalla forza della natura, l’oggetto in questione ha ispirato una sorta di poema epico per la piccola frazione di Pardesca che, in assenza di altri monumenti, lo ostenta con orgoglio e venerazione.
Foto: turismo.reggiocal.it