Di Bruno Siciliano
Proprio come dieci anni prima, quando era tornato in paese da Milano. Precedentemente era emigrato in America, con la sua famiglia, a Detroit.
Oltreoceano aveva sperato di trovare la sua fortuna, aveva lavorato in fabbrica, ma c’erano troppe ore da fare e lui non ne aveva il fisico. Aveva fatto il vinaio, il lattaio, il droghiere, ma nessun lavoro gli era andato a genio. Si era anche comprato un ristorante con i soldi della famiglia, ma lo aveva lasciato ai fratelli che, invece, con quel locale avevano fatto la loro fortuna.
Era rimasta solo l’insegna, Vito and Brothers, verniciata a smalto sopra un grande pannello di legno da un artista italiano che ci aveva voluto dipingere proprio al centro anche un piatto di spaghetti fumanti.
S’era innamorato di una brava ragazza che moriva d’amore per lui, figlia di una famiglia siciliana, emigrata anch’essa là nel Michigan, in cerca di fortuna; ma era successo un brutto fatto e, dalla sera alla mattina, Mastru Vitu era ritornato in Italia solo e più povero di prima.
Erano già gli anni ’70 e si era stabilito a Milano.
Un’altra città, un’altra donna e un altro lavoro.
Forse non si poteva parlare di un lavoro vero, ma i soldi arrivavano a fiumi in quello studio.
Era il periodo della rinascita, della speranza, e affiancava un amico che aveva messo su uno studio di chiromanzia. Lui faceva il cartomante, leggeva i tarocchi marsigliesi, quelli degli Angeli e delle Sibille. Era molto bravo e, solo con il semplice passaparola, si era trovato ad avere una sfilza di clienti che aspettava da lui un responso, una previsione, un semplice consiglio o anche solo una parola di conforto. L’amico, invece, leggeva la sfera di cristallo e il pendolino divinatorio e, assieme, erano diventati inaspettatamente ricchi e famosi in tutta la regione.
Poi, la débâcle: l’amico fidato era stato arrestato in una retata dei carabinieri e accusato di riciclaggio e ricettazione perché s’era trovato amici poco raccomandabili cui faceva troppo spesso favori illegali.
Così, per Mastru Vitu, finì anche l’avventura milanese. Fece le valige, prese un treno verso il sud e ritornò nella cittadina medievale che gli aveva dato i natali.
Il borgo era sorto un millennio prima su di una collina bellissima, a cinquecento metri sul livello del mare, distante dalla costa ionica soli otto chilometri.
A una pari distanza si trovava, invece, l’alta montagna, con i boschi di conifere cariche di muschio sulla corteccia, i funghi, il profumo dell’humus, gli animaletti selvatici, le more di rovo e un’infinita varietà di fiori che attendevano solo di essere colti per donarli alle ragazze in cambio di un luminoso sorriso.
Il mare era limpido e trasparente perché non solcato da grandi navi, ma solo dalle barche dei pescatori che trovavano, tra le sue acque, tutti la ricchezza di cui avevano bisogno per sopravvivere.
La cittadina era colma di monumenti storici e ristoranti tipici. L’aria era fine, il cielo sempre terso e l’acqua limpida e dissetante.
Le donne erano belle e gli uomini buoni.
Non c’era, però, più nessuno che attendesse Mastru Vitu in quella città. I suoi genitori erano morti in America, gli amici erano tutti partiti e gli abitanti non se lo ricordavano più o non lo conoscevano per niente.
Era rimasto di nuovo solo.
Lui sapeva solo leggere le carte, aveva portato un buon gruzzolo da Milano e, con esso, aveva comprato quella casetta con il tetto basso in fondo a Via Mercadante, dove aveva aperto uno studio di cartomanzia.
Acquistata l’abitazione gli era rimasto ancora del denaro, che Vito aveva cominciato a far fruttare prestando soldi a usura a chi ne aveva bisogno.
Con il tempo s’era, quindi, fatto un nome come cartomante e pure come strozzino.
Tra i bagagli che i era portato appresso, du gli appesantivano il cuore: il suicidio di Veronica e il fattaccio occorso all’amico di Milano che, in un modo o nell’altro, lo aveva comunque coinvolto.
Di colpo, senza preavviso, anche quell’anno era arrivata l’estate. La bella stagione, nel borgo medievale, si presentava come sempre ciarliera e festosa, piena di profumi, colori, leggerezza e promesse d’amore. Le giornate erano diventate lunghe e calde e i bar avevano messo fuori i tavolini che punteggiavano quasi tutta la piazza.
Peppe, il barista, aveva messo fuori il cartellone che elencava i gusti delle granite e dei gelati e tutti i tavoli si riempirono presto di rumorosi turisti multicolori provenienti da ogni angolo del mondo.
Un’avvenente ragazza, appoggiata a un lampione, si faceva fotografare sorridente dal suo fidanzato per poi ripagarlo con innumerevoli baci. Una tedesca più anziana, in compagnia del marito, ordinava, dopo l’abbondante aperitivo a base di friselle arriganate, olive in salamoia e melanzane mbuttunate, un inopportuno cappuccino.
«… e poi un’altra birra!» gridò verso la camerierina sculettante il marito, in pantaloncini corti e sgargiante maglietta decorata da enormi e coloratissimi petali.
Il maresciallo Stracuzza era seduto quasi in disparte a un tavolino del bar con la sua Giulia che, come una fidanzatina ai tempi del liceo, lo colmava di attenzioni. Lui, pur cercando di non scontentarla, tentava allo stesso tempo di mantenere un atteggiamento più consono alla sua divisa.
«Ti prego, Giulia! Non così, che ci vedono!»
«E che m’importa? Ti amo troppo, Luciano, per starmene con le mani in mano e non ce la faccio.»
«Sì, ma mangia la granita, adesso, che si scioglie tutta!»
Uno stormo di motociclisti fece d’improvviso il suo rombante ingresso in piazza e, parcheggiati i propri mezzi infernali alla rinfusa, presero possesso di alcuni tavolini per ordinare birra, vino e aperitivi tra mille schiamazzi.
Il rombo delle moto si era mescolato al chiacchiericcio dei clienti del bar e le grida gioiose dei ragazzini che giocavano a palla poco distante.
«Ve lo spacco, quel pallone, se continuate a dare noia!» urlò Peppe, che era uscito per sedare i ragazzini, ormai troppo vicini al bar, temendo che potessero dare fastidio ai clienti.
Zoppicando, il Cartomante attraversò lento la piazza elegantemente appoggiato al suo bastone intagliato e rispondendo di tanto in tanto ai saluti dei paesani che incontrava lungo sua strada. Diede un’occhiata al bar di Peppe e sognò per qualche istante d’essere ritornato ai tempi in cui, in un locale oltreoceano, sedeva spensierato con gli amici per elaborare i progetti mai realizzati di un’intera vita. Fu un solo brevissimo istante, poi s’incamminò verso la passeggiata che domina quella fetta di Mare Ionio da Roccella fino a quasi Brancaleone.
Non c’era nessuno, sulla passeggiata, erano tutti al bar o in giro per la città ad ammirare i monumenti che nei secoli l’avevano resa ricca e famosa.
Si sedette su di una panchina quasi incassata in un angolo formato da una sporgenza di tufo, non aveva voglia di vedere nessuno e voleva che nessuno lo vedesse. Il suo più grande desiderio, quella mattina, era di stare solo con i suoi pensieri e i suoi fantasmi.
Guardò a lungo verso il Borgo, un tempo regno di artigiani e commercianti, dunque il suo sguardo si soffermò lontano verso la marina e verso la campagna verde immota e assolata.
Poi chiuse gli occhi e gli sembrò di volare…
Foto: melius.club