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Costume e SocietàLetteratura

Veronica

Il cartomante di Torre Normanna XII


Edil Merici

Di Bruno Siciliano

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La contessa Luisa Trombetta vedova Basso, Pubblico Ministero della Procura di Reggio Calabria, fece appena in tempo a salire sull’aereo che l’avrebbe portata all’aeroporto di Verona per poi, con un auto a nolo, raggiungere Vicenza. Si accomodò nel posto in prima classe che la cortesissima hostess le aveva indicato e prese dalla capiente borsa firmata il suo PC. Lo apri, lo accese e attese che lo schermo la facesse accedere alle cartelle ordinatamente allineate sul desktop. Poi cercò un poco e trovò quella nominata Mastrangelo. Cliccò due volte sul file e prese a rileggere i verbali, le relazioni e i referti a firma dei vari inquirenti, compresa quella del medico legale.
Sembrava un caso lampante, fino a qualche giorno prima, ma via via che passavamo i giorni troppi punti oscuri si accavallavano l’uno sull’altro.
Quello che l’aveva colpita particolarmente era la serenità con cui Mastrangelo aveva accettato o, forse, desiderato la sua morte. Ne aveva visti di morti ammazzati nella sua carriera, ma nessuno era così sereno, così rassegnato, quasi desideroso di quella morte così orrenda.
Il ritrovamento del tesoro del Cartomante era poi stato per l’indagine un inaspettato colpo di scena.
Un vero tesoro ammassato un po’ alla rinfusa come la vita del cartomante, ma intatto. Non restava che aprire la cassaforte: chissà cosa si poteva celare? Soldi, sicuramente ma chissà cos’altro. Questa domanda tormentò la contessa Trombetta fino all’agenzia in cui sbrigò le formalità per affittare il fuori strada. Nero, potente e bellissimo, come piaceva a lei.
Non aveva trovato, a Vicenza, un hotel a cinque stelle come lei avrebbe voluto, ma quel quattro stelle in pieno centro andava proprio bene. A pochi passi c’erano la Basilica Palladiana e la bellissima Chiesa di Santa Corona, ma la contessa non era lì per visitare le bellezze architettoniche del luogo e quando la luna bianca e serena fu alta e grande nel cielo vicentino lei, con indosso una lunga veste bianca, si mise in macchina e si avviò. Percorse strade larghe e modernissime e vie sterrate fino ad arrivare al parco quasi incontaminato lambito ai margini dal fiume Brenta. Lasciò l’auto ai lati di un viottolo e continuò a piedi.
Era notte fonda e la campagna sembrava attenderla. La terra profumava di buono, aveva acceso la luce del suo cellulare ma poi la spense: la notte era calma e serena e proseguì sotto la luce della luna avviandosi sicura là dove sapeva che avrebbe potuto incontrare le sue ninfe gentili come già era successo in altre notti, in altri tempi.
Si fermò un attimo a contemplare il bosco immerso nella notte e poi la riva del fiume sul quale si specchiava candida e immota la grande luna.
Una figura le si appressò d’un tratto. Non ebbe paura, era una ragazza bellissima dai lunghi capelli neri.
«Dolce ninfa» disse la contessa rivolgendosi alla ragazza, e poi continuò:  «Insegnami, ti prego, se vuoi, i tuoi segreti, io ti sono amica, ho fatto un lungo viaggio per poterti incontrare…»
La contessa stava per inginocchiarsi ma la ragazza, sostenendola, glielo impedì e fu allora che si accorse che la candida veste della giovane era macchiata di sangue.
«Non voglio che t’inginocchi davanti a me, ascoltami piuttosto. Io sono Veronica e sono la responsabile indiretta della morte di Vito. Fra qualche tempo c’incontreremo, ma lui dovrà espiare e tanto. Poi saremo assieme per l’eternità. Se vuoi conoscere veramente il suo passato e le sue colpe cerca dove tutto ebbe inizio. Tu non scoprirai mai l’autore della sua morte, ma conoscerai il suo animo, la sua vita e le sue colpe.»
Poi scomparve com’era apparsa. La contessa restò sola nel buio della notte e si accorse che le sue mani adesso erano imbrattate dal sangue della ragazza che era sgorgato abbondante dalla ferita che aveva sulla testa che le aveva imbrattato la candida veste.
Restò sola, la donna, e si guardò intorno mentre la notte profumava di terra umida e di fiori marci. Una civetta sopra un albero in riva al fiume emise un grido lugubre che continuò in una nenia senza fine, poi volò sopra un albero più alto. Neri uccelli notturni planarono in un folto stormo sopra la testa della donna e poi sembrarono dissolversi verso est.
La contessa corse via e ripercorse il cammino fatto, ma non trovava più il punto in cui aveva lasciato la sua auto, un ramo di traverso sul viottolo la fece inciampare. Cadde riversa sul terreno umido e altri rami le graffiarono le braccia e le strapparono la veste ormai non più candida e il suo sangue si mischiò a quello di Veronica. Ebbe paura e un’angoscia orrenda s’impadronì del suo cuore e della sua anima, si sedette per terra, guardò in alto la luna bianca e severa e pianse.

Puntuale come un orologio svizzero, alle 9 esatte il dottor Giacomo Turturro, della Sovrintendenza alle Belle Arti di Reggio Calabria, suonò alla caserma dove il maresciallo Stracuzza era al suo posto di lavoro e aveva già mille diavoli per capello. Il maresciallo aveva scoperto che Giulia, la sera prima, non era stata con le amiche a mangiare la pizza perché, per un maledetto caso fortuito, due di quelle sceme le aveva incontrate in piazza la sera prima a civettare con i rispettivi fidanzati. Dov’era e, soprattutto, con chi era stata la sera prima Giulia?
«Maresciallo carissimo» esclamò il dottor Turturro facendo il suo rumoroso ingresso nell’ufficio di Stracuzza, dopo aver rovesciato una sedia e salvato un portafiori che Cristina aveva colmato di fiori freschi e posto sopra un tavolo nell’entratina.
Il maresciallo indicò all’eminente professore la solita sedia davanti alla sua scrivania per farlo accomodare.
«Non ho tempo per i convenevoli, mi faccia vedere i reperti.»
Leggermente contrariato Stracuzza chiamò:
«Cristina, andiamo a Liserà, prenda la Jeep.»
I tre montarono, dunque, in macchina, e si avviarono verso la casa di campagna di Mastrangelo. Non appena entrati il professor Turturro si addentrò nella stanza che Cristina gli aveva indicato e vedendo i reperti si inginocchiò loro di fronte. Sembrava un pastorello davanti alla grotta del Bambinello e, con la stessa devozione, esaminò una a caso di quelle statuette dicendo con voce tremante, una sola parola:
«Meravigliosa.»
Poi aggiunse, sussurrando a una di esse in particolare: «Dio, quanto sei bella» come fosse una ragazza appena conosciuta e della quale, per un fatidico colpo di fulmine, si era innamorato. Poi restò almeno un altro quarto d’ora in quella posizione quasi immobile, mentre le sue mani, con venerazione, giravano e rigiravano la statuetta in tutte le posizioni, la carezzavano mentre la sua bocca pronunciava solo: «Dio, Dio mio.»
Tutta questa fede nell’Essere Supremo che ci governa innervosì alquanto il maresciallo che, un po’ alterato, si rivolse al professore: «Allora, dottor Turturro, mi dica qualcosa.»
Il Professore, scuotendosi dal suo fervore mistico, pur restando inginocchiato, volse la testa verso Stracuzza e disse: «Lei non sa che cosa ha trovato.»
«No professore, non lo so ma gradirei che lei me lo spiegasse, per favore.»
Il professore lo guardò severo, si alzò lentamente e, con altrettanta lentezza, si sprofondò nella poltrona impolverata che era appoggiata a una parete della stanza. Sembrò concentrarsi un attimo, poi con una voce che sembrava provenisse dall’oltretomba cominciò a parlare: «Queste statuette risalgono a un periodo che varia tra il 3.500 e il 4.000 avanti Cristo, stiamo parlando dell’età del bronzo. Furono rinvenuti degli insignificanti reperti in uno scavo, poi abbandonato, sopra Monte Cavallo, nel bresciano, dove fu trovato anche un importante circolo di pietra che si rifaceva al culto del sole, ma si era certi che molti altri reperti dovevano essere ancora trovati. I soldi finirono e non si andò avanti nelle ricerche. Qualche altro sicuramente ha proseguito fraudolentemente gli scavi ed ecco qui il risultato.»
«Allora?» chiese il maresciallo.
«Allora – proseguì Turturro, – sicuramente chi trovò i reperti rimase fregato dai reperti stessi, questi non hanno mercato. Non ne possono avere. Sono unici al mondo, guardi questo elmo, cosa le sembra?»
«Mi… mi sembra un…»

Foto: betterwalls.com


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